martedì 26 novembre 2013

Quello che resta

CAPITOLO QUARTO

Dio mio, Mattia. Ti rendi conto o no?”

Mari si passò le mani tra i capelli raccolti all’indietro, guardando intorno a sé nervosamente. Era scesa fuori di casa in fretta, mettendosi addosso i jeans stretti da lavare e il piumino nero lucido che non si chiudeva, con la cerniera rotta. Era entrata in macchina dove l'avevo aspettata per pochi istanti - si era presentata al nostro incontro puntualissima, come sempre – e, intrappolata al sedile, immobile e concentratissima, mi aveva ascoltato per dieci minuti, in silenzio. Senza dire una parola, aveva seguito i miei balbettii, le mie narrazioni confuse, per tutto il tempo che mi era servito ad affastellare disordinatamente le mie confessioni. Guardandomi dritto negli occhi, aveva accolto il mio smarrimento senza commentare, frugando in silenzio nel mio sguardo perso senza palesare un giudizio. E, passato qualche minuto dalla fine delle mie parole, si era espressa, lapidaria.

Dio mio, Mattia. Ti rendi conto o no?”

Aveva i capelli raccolti un po’ sporchi ed era struccata, come non era quasi mai. Si era sempre truccata poco, Mari, ma quasi sempre metteva un mascara nero che le rendeva gli occhi piccoli ancora più scuri, ancora più all’erta, e che le dava quell’aria semplice ma curata, da ragazza sana. E i capelli, quasi sempre rigorosamente legati in una folta coda alta, non erano mai lasciati alla trascuratezza, erano sempre impeccabili, puliti e ordinati. Alta e magra, era sempre stata in forma, Mari, la pelle del viso chiara e compatta e il corpo tonico, slanciato, da sportiva, quel culo piccolo sotto i jeans attillati che mi faceva impazzire. Quel giorno era trascurata e stanca, ma era sempre lei, bella e pulita.

Dio mio, Mattia. Ti rendi conto o no?”

Mi passai due dita sotto il colletto della camicia. Stavo sudando. Una corda ispida e pungente mi stringeva le gambe e le ginocchia in una morsa d’ansia. Dal basso, la corda saliva e intorno al petto si contorceva stretta a serrarmi il battito. Ad ogni respiro la corda tirava, la morsa stringeva e il dolore al petto rimbombava sonoro fino alle tempie, in attesa della stretta successiva.

Mi rendo conto, Mari, mi rendo conto, ma...ma io cosa posso fare....cosa devo fare”.

Deglutii a fatica. Avevo la gola secca. Sentivo la schiuma bianca ai lati della bocca diventare sempre più vischiosa, la pelle tirata sempre più calda. Sentivo il viso contrarsi, irruvidirsi, come se stessi dimagrendo di colpo, in pochi minuti.

L’ha vista Lorenzo, ieri mattina...dice che è sana, che dovrà vederla anche un pediatra, ma che sicuramente è una bambina normale. Ha detto che l’esame delle ossa conferma l’età dei documenti...e che si informerà per il neuropsichiatra...ma...ma che a lui è sembrata serena, solo molto silenziosa”.

Mi fermai un attimo. Respirai a fondo, come per entrare in apnea. “Le maestre dicono che è bravissima...sa già leggere e scrivere, parla inglese correntemente. Capisce il francese, senza problemi...ma tende a non parlarlo. Dicono che è sempre molto silenziosa, attenta e che è molto ubbidiente”.

Mari alzò la testa di scatto per voltarsi due secondi verso di me e guardarmi fisso. Si passò le mani magre e lunghe sopra il viso pallido e pulito e riprese a fissare di fronte a sé, gli occhi piccoli e intelligenti concentrati su un punto lontano che non riuscivano a mettere a fuoco.

Maria, la mia amica Mari. Il giorno in cui ci eravamo conosciuti, Elis era entrata in classe timidamente, pochi passi dietro una sagoma atletica e spigliata, la sagoma di Mari. Sicura, Mari l’aveva accompagnata dentro l’aula, la falcata lunga, il sorriso deciso, i capelli raccolti in una coda di cavallo altissima. I capelli semplici e ordinati di chi è abituato a prendersi cura di sé con praticità, senza troppi lussi.

Mari. Le sopracciglia sottili, i denti grandi e bianchi, il suo sorriso estroverso ed immediato, da ragazza semplice. Era bastato il suo ingresso un po’ irruento, quella mattina, il suo accento di paese e il suo abbigliamento attillato di seconda mano, da mercato, per farmi chiedere cosa ci facesse tra noi. Solo molto tempo dopo scoprii che rientrava in una categoria sociale protetta che accedeva a quegli studi per altre vie rispetto ai criteri rigidi con i quali noi eravamo stati selezionati. Anche il diploma finale era un altro e lo sarebbero stati anche i corsi, se lei non li avesse seguiti tutti perché, mi avrebbe detto un giorno, la borsa di studio che lo Stato le erogava per il mantenimento agli studi veniva calcolata in base alle ore di lezione frequentate.

La madre di Mari era affetta da una grave malattia neuro-degenerativa, la rara e incurabile corea di Huntington. Da quando Mari era nata, fino a più o meno la sua maggiore età, la madre sarebbe potuta sembrare niente più che una donna goffa, impacciata, poco intelligente e con un pessimo carattere. Nessuno si sarebbe mai potuto immaginare, per quanto la natura progressiva del disturbo fosse sempre stata evidente, cosa un giorno la madre di Mari sarebbe diventata. Intorno alla maggiore età della figlia, la donna aveva perso in modo assoluto il controllo dei suoi movimenti. Il suo corpo avrebbe cominciato a contorcersi in modo anormale, spasmodico, in torsioni e movimenti ripetitivi che le impedivano il normale svolgimento di qualsiasi attività quotidiana. I repentini sbalzi di umore che aveva sempre avuto sarebbero esplosi in accessi violenti di rabbia psicotica, incontrollabili e immotivati, illogici e improvvisi. E le capacità cognitive, la memoria e la capacità di concentrazione, se mai erano state brillanti, sarebbero deteriorate a velocità sempre più rapida, fino a farla tornare, quando Mari era ormai donna, una bambina.

Mari, a diciott’anni, era già lei, con la sua intelligenza pratica e concreta, la sua onestà cristallina, la sua saggezza semplice e pragmatica. Si era diplomata all’istituto professionale e subito dopo aveva cominciato a lavorare come barista in un locale notturno di periferia. Non avrebbe mai studiato all'università se non fosse stato che, facendolo, avrebbe goduto di una borsa di studio tanto alta da farle pensare che studiare e lavorare part-time economicamente le fruttava di più che lavorare a tempo pieno. La natura di Mari non era fatta per studiare. Mari era su un altro livello. Dei libri, Mari non aveva bisogno. Io non ero così, non ero alla sua altezza, ma Mari non la vedeva allo stesso modo. Non avrebbe mai potuto capire quanto io la invidiassi. Non fa per me Mati, non fa per me studiare. Io non sono come voi, io sto al mio posto solo dietro al bancone. Una delle tante notti in cui era venuta a trovarmi, una delle tanti notti in cui ci eravamo fatti compagnia sfidando la solitudine come solo due amici di sesso opposto sono in grado di fare, dopo aver fatto l’amore io l’avevo riempita di baci sul viso e lei mi aveva confessato, come non faceva mai, quella che lei considerava la sua peggiore debolezza. E tante volte lo avrebbe fatto, in seguito, ripetendo sempre le stesse parole. Io non sono come voi, Mati, io non sono fatta per studiare. Io sto al mio posto solo dietro al bancone.

Mari, ho bisogno del tuo aiuto. Mi devi dare una mano. Me lo devi. Me lo...me lo devi”.

Maria non mi doveva proprio niente. Non era tenuta ad ascoltarmi, non mi doveva alcun aiuto. Non sarebbe stata tenuta a scendere le scale quella mattina, non le era dovuto entrare nella macchina che avevo parcheggiato sotto casa sua per incontrarla. Non era tenuta ad aiutarmi, trascurata, stanca, i capelli sporchi raccolti all'indietro e il viso bello, pallido e teso di chi ha lavorato al bar fino alle 5 e si è dovuto svegliare poche ore dopo. Lo sapevo, lo sapevo benissimo, Maria non mi doveva niente. Avrei potuto ammettere i miei limiti, la mia inferiorità, e dire ho bisogno di te, non ce la posso fare da solo, ti prego aiutami perché da solo non sono in grado, ma io non ero come lei, non ero in grado, non ero lei, quindi inghiottii a fatica per recuperare il respiro e rimpossessarmi del mio battito e insistetti. “Me lo devi. Devi darmi una mano”.

Insistetti perché sapevo che con Mari potevo farlo, lo avevo sempre fatto. Ero vigliacco, non ero come lei e sapevo come Mari avrebbe preso le mie parole e come avrebbe reagito. Per Mari, la mia era una richiesta di aiuto, nient'altro. Una semplice richiesta d'aiuto, una mano, devi darmi una mano. Chiunque altro sarebbe sceso dalla macchina e se ne sarebbe andato, offeso dal mio 'me lo devi', 'devi darmi una mano'. Io sarei sceso dalla macchina e me ne sarei andato, indignato. Ma per Mari chiedere aiuto era chiedere aiuto, niente di più. Con lei non c'era bisogno di complicare le proprie richieste ammettendo la propria debolezza e il bisogno di rivolgersi a lei.
Non c'era bisogno perché Mari non riempiva di significato i gesti e le parole altrui, non costruiva la realtà intorno alle idee. Quindi 'devi aiutarmi a portare su la spesa', 'vado in vacanza devi aiutarmi col cane' e 'una pazza mi ha lasciato in mano una bambina di cui so solo il nome ed è sparita, devi aiutarmi e fare da madre alla piccola perché io non sono in grado di farle da padre' erano la stessa cosa, semplici richieste d'aiuto. Le parole, per Mari, erano parole, e le azioni, azioni. Non attribuiva un senso altro alle parole e un'interpretazione ai gesti. I concetti, i principi, le idee erano per lei solo infrastrutture che appesantivano la realtà e la mistificavano, complicando inutilmente la distinzione tra bene e male.
Per Mari esisteva solo il giudizio. Il bene o il male. Con le azioni o le parole potevi fare, alternativamente, bene o male. E interpretare, per Mari, non era che il vigliacco strumento della mistificazione.

Quando la madre di Mari aveva cominciato a peggiorare, la zia per parte materna con cui Mari e suo fratello, di ben 13 anni più giovane, erano cresciuti, se n'era andata. Mari era ebrea per parte di madre. La zia, ebrea ultra-ortodossa, aveva educato i due fratelli secondo le dottrine rigide dell'ortodossia più severa. Mari parlava yiddish ed ebraico moderno. Erano state questa competenze linguistiche poco comuni a permetterle l'ammissione al Master. Fino ai vent'anni, aveva pregato tutti i giorni tre volte al giorno, al mattino, al pomeriggio e alla sera. Tutti i sabati non aveva mosso un dito, nel rispetto più assoluto del riposo dello Shabatt. Si era attenuta con la massima precisione alle regole alimentari del kosher e anni dopo, quando avremmo mangiato insieme, l'avrei osservata tante volte guardare con sospetto il cibo treif nella forchetta, indugiare qualche secondo e poi buttare giù, con celata riluttanza, combattendo con se stessa e l'abitudine di anni. La sua coda alta ed ordinata, i suoi capelli scuri e folti sempre rigorosamente raccolti nascondevano l'abitudine fin da piccola alla cura ligia della sua persona nella piena modestia e pudicizia.

Una mattina dei suoi vent'anni, Mari aveva trovato la zia in camera da letto, all'alba, mentre riempiva confusamente una valigia piccola, troppo piccola per una partenza definitiva. L'aveva vista riempire la valigetta a scatti, rabbiosamente, infilando i vestiti sgualciti uno sull’altro senza un ordine, senza guardarli, scegliendoli a caso e stipandoli nella valigia con rabbia, con odio, come se li stesse punendo per il loro essere necessari mentre lei voleva partire, partire subito, abbandonare tutto, e non tornare più. Mari era rimasta sul ciglio della porta per qualche minuto, in piedi, immobile, osservando il disagio psicotico espandersi, nella psiche della zia, come petrolio. L’aveva guardata a lungo, senza dolore, senza paura, solo osservando il suo sguardo fisso e i suoi movimenti scattosi mentre la follia si impossessava di lei una volta per tutte, dilagava a macchia d’olio nel suo corpicino contratto, superava gli argini della diga fragile nei quali per anni era stata rinchiusa e repressa, confinata nel fanatismo cieco e nel puritanesimo ossessivo, che non è di nessuna religione e di tutte quando non sono più fede ma solo follia. Dove vai, aveva detto Mari, parto, aveva risposto la zia, è giunto il momento, ho sentito la chiamata, il prossimo anno a Gerusalemme. La zia sarebbe partita per il Golan con un gruppo di coloni, e Mari non l'avrebbe vista mai più. Per anni Mari si sarebbe occupata da sola della madre e del fratello, tanto più giovane di lei. Per anni, prima della 'cosa più brutta', come la chiamava Mari. Per anni Mari avrebbe studiato, lavorato e imboccato lavato addormentato curato portato in bagno amato la madre, facendo per lei tutto quello che si può fare e pensare per una creatura viva, da sola. La mattina della partenza della zia avrebbe risposto al fratellino più piccolo, tanto più piccolo, di soli 7 anni, che la zia, sì, era morta. E' volata in cielo, gli avrebbe detto, ma non devi piangerla perché lo ha voluto, perché sì, Mari la voleva morta, e solo nella fantasia del fratellino sua zia sarebbe potuta morire.

Avevo conosciuto Mari prima della cosa più brutta. L'avrei continuata a conoscere, a parlarci, a farci l'amore, a volerle bene, anche dopo. E così come prima, dopo, Mari sarebbe stata sempre la stessa. Avrebbe osservato le ingiustizie, le perversioni, le storture della vita e le avrebbe affrontate con una decisa scrollata di spalle, cercando coraggiosamente una soluzione pragmatica che le consentisse di sopravvivere. Senza interrogarsi, senza cercare spiegazioni. L'eterna forza dei semplici, di sapersi affidare e al tempo stesso non arrendere al proprio destino. La sua natura era sana, semplice e giusta. La sua morale onesta, trasparente. La sua coerenza limpida, cristallina. Per tutta la sua vita, la natura integra e genuina di Mari sarebbe stata violata dalle ingiustizie e complicanze della vita. E quella mattina io, coinvolgendola in tutto quello, la stavo violando ancora.

Come. Dico, come, come posso aiutarti. Dove la metto, questa creatura. Dietro al bancone? A lavare i piatti e i bicchieri dell'ultimo cocktail che ho preparato? Come è possibile che io possa aiutarti, Mattia?”
Non so...Mari, non lo so. Ma non c'è soluzione, mi devi aiutare. Non posso prendere una persona, una tata, una babysitter... qualcosa. Non posso”
Perché. Perché non puoi, Mattia. Cosa intendi, perché non puoi”. Non c'era tono interrogativo nelle sue parole, solo il tono teso di rimprovero di chi ti mette di fronte all'illogicità dei tuoi gesti. Le sue domande non erano tali, erano semplici questioni in tono affermativo volte ad esplicitare le mie contraddizioni.
Perché non posso coinvolgere estranei in tutto questo...persone che non conoscano Elis, che non sappiano...non posso. Si potrebbero...non so, potrebbero insospettirsi...su di me...”
Farebbero bene a insospettirsi, cristo santo, povera creatura, è una bambina di 6 anni ed è in mano ad un sconosciuto!”
Mari, ti prego...lo so, hai ragione, ma è così...”
Cosa è così?!”
La situazione, questa è la situazione...Elis mi ha lasciato una bambina e...”
Bella situazione del cazzo, Mattia!”. Mari non si alterava mai. O meglio, mai a caso, mai a sproposito. E, soprattutto, la rigida educazione ortodossa che aveva ricevuto aveva fatto sì che rarissimamente, solo nelle circostanze più estreme, usasse parolacce. Si indignava spesso, si irrigidiva, ma se dalla sua bocca uscivano parole di rabbia poteva essere solo perché il suo sistema di valori era stato stuprato.
BELLA - SITUAZIONE – DEL - CAZZO” - ripeté, sillabando le parole. “Elisabetta, con la quale ti sei scritto per anni senza che la cosa avesse alcun senso, ricompare dal nulla dopo 8 anni, ti informa di avere una bambina e te la lascia in mano. Ti chiede di non fare domande, tu non ne fai e se ne va. Per sempre, solo Dio sa dove”.
Non ha detto per sempre, ha detto solo per molto tempo”
Vaffanculo, Mattia”. Tono secco, lapidario, come se avessi fatto una domanda del tipo sì o no e lei avesse risposto logicamente una delle due. Beh, aveva ragione.
Immagino tu abbia contatti in procura sufficienti per fare le peggiori trafile del mondo” - tacque un attimo per guardarmi severa negli occhi - “...e ottenere la patria potestà di una bambina di cui non conosci nemmeno il padre”. Conosceva il mio lavoro meglio di me.
...”
Quindi adesso la bambina ha una patria potestà ma non ha né un padre né una madre”
...”. Deglutii ed annuii.
Mari tornò a fissare di fronte a sé, lo sguardo lievemente corrucciato, gli occhi intelligenti impegnati nel tentativo di mettere a fuoco il punto lontano. Tutto il suo corpo e spirito proteso nello sforzo di dare una delle sue scrollata di spalle, ancora una volta.
Dove la metto, Mati? Come la tiro su? Dimmi dove e come, e lo faccio, ma suggeriscimi come, perché io, da sola, non vedo la soluzione”.
Vieni a vivere da me. Licenziati al bar. Posso permettermelo, posso mantenere te e la bambina. Vieni a vivere da me e stai dietro alla bimba, so che lo puoi fare”
Non sarei una buona madre, Mattia”.
No, Mari, lo saresti. Sei sempre stata brava, sei stata brava a fare tutto quello che hai sempre fatto, sei...Mari...”.
Mari si voltò verso il finestrino e poi, di nuovo, di fronte a sé. Due minuti di silenzio in cui combatté con i ricordi. Gli occhi lucidi. La cosa più brutta.
Piegò leggermente la testa verso il basso, la rialzò e guardò avanti, di fronte a sé, ancora una volta. Deglutì rumorosamente, sembrò dire qualcosa ma no, rimase in silenzio e, per un altro paio di minuti, continuò a fissare lontano oltre il finestrino. Poi si girò, e i suoi piccoli occhi neri mi guardarono, dritto negli occhi, con cattiveria.
Va bene – disse. “Io no sono come te, Mattia”.

Per la prima volta in più di dieci anni, Mari aveva parlato al singolare. Io non sono come voi, Mati, io sto al mio posto solo dietro al bancone. Tante volte lo aveva detto. Ora mi guardava negli occhi, per la prima volta, e il suo sguardo serio e severo si rivolgeva a me, solo a me, a segnare una distanza. Io non sono come te, Mattia. Un mondo che non le apparteneva, una vita ingiusta e cattiva ogni giorno violentava la sua natura sana e semplice, cercando di incattivirla. E in quel momento, sì, capii che sì. La vita ci era riuscita. La vita le aveva insegnato come essere cattiva.

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