mercoledì 29 febbraio 2012

Quello che resta


CAPITOLO PRIMO

Quando la vidi seduta al bar, pensai che non era cambiata in niente. Dopo otto anni era sempre lei. Gli stessi occhi enormi e tristi, lo stesso sorriso imbarazzato e timido. Mi avvicinavo al tavolino accostato alla finestra sulla strada e riconoscevo il suo look disordinato, i suoi capelli raccolti in una coda, irregolare . La rivedevo pettinarsi con attenzione di fronte allo specchio ma poi prendere troppo vento, perdersi, e non arrivare mai in tempo. Appoggiata alla finestra del bar, guardava fuori distratta ma con gli occhi seri, raccolta e intimidita, come una bambina, una bambina piccola. Anche quel giorno mi sembrò più piccola, come mi era sempre sembrata lungo tutti quegli anni che erano passati da quando era entrata a piccoli passi nella mia vita. Camminavo verso il tavolo e il suo cappotto rosso mi era sempre più vicino. Faceva freddissimo, e lei indossava un cappottino rosso da primavera, come me la ricordavo. Erano otto anni che non la vedevo ma lei era sempre come l’avevo immaginata tutte le volte che era tornata. Che era ricomparsa nei miei pensieri, che si era fatta viva, che mi aveva scritto una mail da un momento all’altro rientrando nella mia vita con prepotenza e messaggi sconnessi. Come l’avevo pensata tutte le volte che l’avevo odiata, che l’avevo maledetta per il suo cercarmi incomprensibile, per quel contatto che sempre manteneva per poi rieclissarsi, ogni volta, senza saper confermare con decisione la sua presenza.
Ciao”
Sorrise, come aveva sempre fatto. Un sorriso luminoso, come sempre, e bella, come otto anni prima. La stessa. La stessa pelle, gli stessi denti, la stessa postura. Come se qualcuno l’avesse spostata fuori dal tempo e se la fosse presa con sé per non farla cambiare.
Mi fa molto impressione vederti qui ”, dissi.
Anche a me. Cosa prendi? Ti ordino del thé?”
No, niente, grazie” - risposi secco - “tu sempre caffè, vedo”
Sì. Questa volta non ti ho scritto, hai visto?”
Sorrise. Mi aveva sempre scritto, in tutti quegli anni e prima. Avevo scoperto davvero chi avevo di fronte la prima volta che mi aveva inviato una mail, chiamandola “lettera” nella prima frase.
Hpensato tante volte di scriverti questa lettera e ora che lo faccio per la prima volta sappi che lo farò per sempre, ogni volta che avrò qualcosa da dirti. Ci sono persone che sanno come essere quando parlano, e persone che sanno cosa sono solo quando scrivono. Io sono come loro e tu mi prenderai così, sempre, anche se non lo vorrai.
Sì. Questa volta non ti ho scritto, hai visto?”
Sorrisi io, questa volta, ma non affettuosamente. La guardai un po’ di traverso corrugando
scettico le sopracciglia.
No. Vedo. Come stai?”
Bene, grazie. Adesso che sei qui non so più come parlare”.
Era sempre lei. Aveva abbassato gli occhi, imbarazzata, sorridendo con dolcezza e prendendosi le mani tra le mani sempre più raccolta nelle spalle. Era sempre lei, con il suo sguardo dolcissimo e fragile, i suoi occhi azzurri e grigi sempre più tristi. E adesso che sei qui non so più come parlare.
Beh. Dovrai farlo. Ci ho messo tanto per arrivare e mi ero quasi preoccupato”- sorrisi di traverso con piglio sarcastico -“non ci potevo credere che mi chiedessi di vederci. Mi pare che l’ultima volta tu mi abbia salutato con una mail”.
Credo che lo dissi per ferirla, ma che lo dissi anche senza accorgermi che stavo parlando. Lei abbassò i suoi occhi enormi e lucidi, e deglutì. Penso che stesse combattendo con la sua natura.
Ci sono persone che sanno come essere quando parlano, e persone che sanno cosa sono solo quando scrivono. Me lo stava ripetendo in quel momento, a denti stretti, quel momento in cui aveva deciso di appartenere alla prima categoria, contro la sua natura, senza spiegarmi perché.
Ti ho pensato sempre, in questi anni e prima. Ti ho scritto, tutte le volte che ho potuto, ma spesso non potevo. La mia vita è stata difficile, in tutto questo tempo”.
Anche la mia, Elis. Anche la nostra, di tutti noi che eravamo insieme, lo sai. Non capisco questo discorso da vittima, adesso. Comunque. Cosa hai da dirmi?”
Ti devo chiedere un favore, Mattia.”
Un favore. Un favore, Mattia.
Ancora oggi, quando ci ripenso, quelle parole pronunciate a fatica, le prime dopo otto anni di silenzio e di lettere confuse e inspiegabili, mi rimbombano contro le tempie, facendo male. Un favore. Ti devo chiedere un favore, Mattia. Dopo otto anni nei quali, mio malgrado , il suo cappotto rosso e i suoi occhi enormi avevano fatto parte della mia vita e dei miei pensieri, dopo otto anni nei quali l’avevo odiata, l’avevo maledetta, avevo sperato che qualcosa di male la portasse via da questo mondo e da me, come sempre assurda e inopportuna mi chiedeva un favore. Dopo una vita passata in quel suo modo strano di concepire l’esistenza, con naturalezza bussava alla mia porta come se fosse una cosa normale, come una cara amica che dopo tanto tempo torna e, in difficoltà, imbarazzata ti chiede un favore.
Non capisco cosa tu intenda. E’ otto anni che non ci vediamo”.
Sono otto anni che ci scriviamo”.
Appunto. Sono otto anni che rispondo alle tue mail senza che tu mi abbia mai concesso di vederti, come avrebbe fatto una persona normale. Comunque. Dimmi. Mi hai chiesto un favore”.
Lo sai della mia bambina, vero?”
Una bambina. Elisabetta aveva una bambina. Potevo immaginarmelo, in effetti, che nella sua vita strampalata avesse dato alla luce una creatura e magari non avesse mai informato il padre. Era capace di questo e ben altro, purtroppo. Ma no, non lo sapevo.
No. Non lo sapevo, Elis. Come faccio a saperlo. Non me lo hai mai scritto. Non parlo di te con nessuno. Gli altri non li sento da tanto. Abbiamo perso i contatti, da anni ormai. Quindi. Hai una bambina?”
Sì. E ti devo chiedere una cosa.
Devi farmi una promessa, Mattia. Oggi, in questo posto, in questo momento. Giuramelo.”
Ecco. Anche adesso la odio, ricordando quel momento. La odio, come la odiai allora, senza poter reagire. La odiavo, ma lasciai che prendesse le mie mani come aveva sempre fatto prima di sparire nel nulla, otto anni prima, stringendole fortissimo tra le sue, aggrappandocisi, come per non cadere. Lasciai che prendesse le mie mani e che i suoi occhi enormi e a mandorla diventassero sempre più lucidi, sempre più chiari, che la sua voce dolcissima diventasse sempre più bassa e silenziosa.
Devo partire, Mattia. Non ho molta scelta. Devo partire e andarmene, oggi, adesso. Non posso spiegarti perché. Non per il momento, almeno. Devo lasciare il paese e non posso portare la bambina con me. Devi tenerla tu, non so per quanto. So che lo puoi fare. So del tuo lavoro, della casa, che hai la possibilità. Devi tenerla tu e proteggerla. Prenderti cura di lei. Spiegarle quello che sai. Io non potrò starle accanto, non ora, e non posso lasciarla sola.
Adesso io mi alzerò e andrò alla porta. Tra pochi secondi uscirò, proseguirò a destra per pochi metri, e prenderò il taxi che in questo momento è all’angolo, proprio dietro di noi. Salirò sulla vettura e me ne andrò, e per un po’ non ti scriverò. Per un po’, per molto tempo, ma non per sempre. Tu aspetterai qualche minuto e poi uscirai. Fuori, troverai una bambina in piedi accanto al lampione, quello all’angolo, qui di fronte, all’ingresso del parco. E’ una bambina bionda, magra, con un caschetto e una frangetta corta. Ha gli occhi chiari, un cappello grigio spesso e un cappotto rosso. Si chiama Sole. Maria Sole, ma chiamala Sole, la chiamiamo tutti così, si volterà. Adesso uscirai e la troverai al lampione, in piedi, che guarda intorno a sé. E la prenderai con te. Sa del tuo arrivo, quindi non avrà paura.

Prenditi cura di lei, Mattia”.

CAPITOLO SECONDO

Sole entrò nel matrimoniale di Mari facendo leva sulle braccine magrissime per non cadere ed arrivare alla sponda del lettone troppo alta. Entrò in fretta tra le coperte, si fermò al centro esatto del letto e, rimboccandosi le lenzuola come se fosse abituata a rifarsi il letto tutti i giorni, si sistemò in silenzio pronta per andare a dormire. Quando fu in ordine, rimase ferma qualche secondo guardando verso il basso, fissando un punto preciso del lenzuolo e sospirando lievemente. Sembrava che si stesse chiedendo se avesse fatto tutto quello che doveva fare e sì, si stesse rispondendo che sì,  le lenzuola erano state sistemate e  tutto era stato fatto come si doveva. Rimase silenziosissima guardando in basso ancora per qualche minuto mentre io, guardandola attentamente, mi sedevo sulla sponda del letto, al suo fianco.
Ciao”. Fissandomi negli occhi mi salutò, con uno sguardo ubbidiente, come se tra le mansioni della sera da portare a termine prima di andare a dormire ci fosse anche il dovere di salutare con rispetto una persona adulta che si sedeva accanto a lei.
Ciao, piccola. Sei stanca?”
Provai a rimboccarle le coperte accarezzandola la frangia ma Sole aveva da sola già fatto tutto.
Mari era rimasta sconvolta. “Quella scoppiata l’ha educata come una svizzera, te lo dico io. È incredibile, fa tutto da sola e non fiata. Solo da quella folle poteva venire fuori una cosa del genere”.
Era vero. Sole era incredibile. Silenziosissima, ubbidientissima, badava a sé eseguendo in silenzio gli ordini che la sua coscienza le imponeva e ad essi ubbidiva, momento per momento, abbassando a terra gli occhioni azzurri.
No no. Ora vado a dormire”.
Brava. Domani è sabato. Non hai scuola, puoi riposare”.
Sì.”
Sei contenta?”
Sì.”
Non mi sembrò sincera. Aveva guardato in basso come sempre faceva quando ubbidiva ai comandamenti della sua coscienza e aveva risposto “sì” solo perché “sì” era la risposta che mi avrebbe reso contento.
Sei sicura, Sole? A scuola, intendo. Sei contenta? Ti trovi bene con i compagni? Sii sincera, dai, piccola”
Sì”. Brevissima esitazione.
No, in realtà no. Ma non possiamo farci niente”.
Aveva aspettato un secondo prima di proseguire. Mi aveva fissato seria per qualche istante e, senza parlare, si era risposta ad una domanda silenziosa che si era fatta, parlando a se stessa, mentre le chiedevo di essere sincera e rispondermi onestamente se si trovava bene. Cosa fare quando non siamo felici. Come se si stesse ripetendo qualcosa che in passato aveva imparato e che adesso doveva sapere e doveva ripetersi. Non possiamo farci niente quando non siamo felici. Non possiamo farci niente quando non ci troviamo bene a scuola.
Perché, piccola? Non ti piacciono i compagni? La maestra dice che sei bravissima”.
In quel momento, mentre mi guardava seria per ascoltare la mia domanda, Sole aveva sei anni, e non uno di più. Mi guardava con i suoi occhioni sempre più seri, stringendo il lenzuolo con le manine per cacciare indietro le lacrime. Adesso era davvero una bambina, una bambina piccolissima, una bambina di sei anni che non era felice.
Sì, sono buoni i compagni. Solo che non mi piacciono. E poi voglio tornare a casa”.
Solo che non mi piacciono. Sono buoni i miei compagni. E poi voglio tornare a casa.
Lucy. La mia piccola Lucy. Lucy, che studia alla scrivania, stringe con forza il pugno. Le dita piccole e ossute in un pugno stretto sempre più magro. Stringe il pugno, si passa una mano tra i capelli, si copre la bocca. Stringe forte i denti, si sforza di non piangere.
Rividi la mia sorellina, la mia piccola Lucy, i primi anni dell’università. Va tutto bene, Mati, va tutto bene. Solo che, non ci posso fare niente, non mi piace. Cosa non ti piace, Lucy. Non lo so, non mi piace. Non mi piace, Mati, non mi piace andare avanti.

CAPITOLO TERZO

La ragazza alla sponda del letto ha i capelli castani e gli occhi blu. Mi guarda per qualche secondo e poi si volta. Torna al suo lavoro. Ha indosso una camicia. Una camicia da notte, lunga, lunga fino a terra. E’ scalza, la ragazza. È tutta bianca, la sua camicia, ma ha una macchia. Sopra il seno, il seno nudo, ha una macchia, una macchia nera, indefinita.
No. E’ rossa, la macchia. Una macchia rossa sopra i capezzoli, i capezzoli magri e ossuti, che intravedo sotto la camicia da notte. E’ una macchia rossa e nera ed è sempre più grande. Ha sempre più macchie, la ragazza, sempre più grandi sotto la camicia.
Perde sangue. Seduta su una sedia accanto alla sponda del letto, la ragazza perde sangue dal petto ossuto e mi fissa. Mi fissa, e torna al suo lavoro. Vuoi una mano, cosa fai, vuoi un mano, non mi posso muovere. La ragazza ha i capelli castani, non risponde, ha i capelli castani e morbidi, riccioli, riccioli morbidi sopra le spalle magre, sopra le ossa sotto la camicia bianca e sporca.
Ha in mano un cucchiaio, un cucchiaio piccolo e arrugginito. Cosa fai, con il cucchiaio. Lavora, la ragazza lavora, imboccando una vecchia distesa nel letto.
C’è una vecchia, nel letto, una vecchia raggrinzita, tra le lenzuola bianche del letto di ospedale. Un ospedale, la vecchia è in un letto di ospedale. E la ragazza con i riccioli castani la imbocca, con un cucchiaio piccolo e arrugginito.
Mi guarda, qualche secondo. Ha il naso affilato e le labbra sottili. Le labbra sottili sono le labbra delle persone cattive, ma che dici, non sono vere queste cose, sì, sono vere, le labbra sottili sono le labbra delle streghe, la ragazza imbocca la vecchia con un cucchiaio arrugginito, la ragazza è una strega e la vecchia mugola.
Mugola, è raggrinzita. Mi voglio muovere, ma non posso, la ragazza mi fissa. Provo a muovermi e lei in un secondo si volta di scatto, mi gela, gli occhi blu e le labbra sottili, non ti muovere. E’ cattiva, la ragazza, imbocca la vecchia da un vasetto e la vecchia mugola.
Apre la bocca la vecchia, a forza, è un buco nero la sua bocca, un buco nero che perde sangue. Un buco nero senza denti, e la lingua, dove è la lingua, la vecchia mugola e piange, la lingua è a pezzi. Nel buco nero, la ragazza la imbocca, la imbocca a forza, con un cucchiaio arrugginito da un vasetto piccolo. La imbocca e la lingua si taglia.
Ferma. La vecchia mugola, fermati, fammi muovere, ma la ragazza mi gela e continua.
Il vasetto.
Il vasetto sopra le sue ginocchia, le ginocchia ossute. Il vasetto è piccolo e pieno. Pieno di cosa, di cosa è pieno, la vecchia piange e la ragazza continua. Pieno di lame, di lame e di vetri, perché, perché lo fai. La vecchia mugola mentre i vetri le entrano nella lingua, nella gola, e lei non respira. Si muore quando ti tagliano, quando ti tagliano la gola muori soffocato, ma che dici, muori perché non hai più sangue, no, muori perché il sangue ti leva il respiro.
Il cucchiaio. Il cucchiaio piccolo e arrugginito. Il cucchiaio pieno di lame. Fermati, fammi muovere.
La ragazza mi fissa. Ha gli occhi blu e le labbra sottili. Mi fissa, prende un bicchiere accanto a sé, è velocissima. Prende un bicchiere lo mette in un panno e lo spacca.
Un bicchiere che si spacca. I vetri che si frantumano. Il rumore dei vetri e la vecchia che mugola.