Il mio tempo è
adesso
La notte tra il
primo e il due luglio, verso le cinque e trenta del mattino, una
citroen C3 viaggiava su via Bolognese all’altezza di Pian di San
Bartolo, Firenze.
Dopo una curva, la
macchina schianta violentemente contro un’auto parcheggiata e il
passeggero seduto sul sedile posteriore batte il cranio con forza
contro il montante di ferro tra i due finestrini sfondando poi con il
viso il finestrino alla sua destra.
La dura madre e
l’aracnoide si fratturano, introflettendosi recidono l’arteria
meningea e ledono il lobo frontale non dominante. Per l’onda
d’urto, il maxillo-facciale si scompone in 28 fratture.
Il passeggero entra
in coma e si risveglia 15 giorni dopo, domandandosi se si trova in
Italia o in Marocco.
Questo mi accadeva
due giorni dopo il mio ritorno da Meknés, Marocco, dove avevo
vissuto tre mesi, per l’ultimo modulo del master MiM, Migrazione
Intermediterranea, Investimenti e Integrazione.
La sera del 29
giugno scendevo dal pullman Terravision che da Pisa mi aveva
riportato a casa, a Firenze, e leggevo il mio ultimo messaggio sul
numero marocchino: “ Rja’t
j dar mizian! Kanetmena tkoni m’a l ‘aila dialek. Twahachnakom
bezzaf”.
Buon ritorno a casa! Sii felice con la tua famiglia. Ci mancherai
molto.
Un messaggio di
Boshra, la signora marocchina presso la cui famiglia, a Meknés,
avevo vissuto tre mesi.
Scendevo dal pulmann
e riabbracciavo mio padre, venutomi a prendere.
“Sei felice”, mi
dice mio padre, sorridendo.
“Sì, sono felice.
Il mio tempo è adesso”, rispondo.
“Il mio tempo è
adesso”. L’ho pensato spesso, durante l’ultimo modulo Master e
l’ho ripetuto in continuazione tornata a casa, nei due giorni prima
dell’incidente, a motivazione del mio entusiasmo e della felicità
fiduciosa con cui ero tornata dall’ultimo viaggio. Mi aspettavano
due mesi di Inghilterra, quattro di Libano, uno stage che ero certa
mi avrebbe appassionato moltissimo e una vita futura con nuove
consapevolezze, una visione diversa della vita e del mondo e una
forza e una speranza nuova che un anno di viaggi e di master Mim mi
avevano dato.
Due giorni. La notte
del primo luglio l’incidente e, da quel momento, la sensazione di
cesura, di vita che cambia. L’estate in ospedale, le dimissioni a
settembre, l’impossibilità di partire per il Libano.
Nel momento di
maggiore entusiasmo, di fiducia piena in se stessi e nei mesi a
venire, l’interruzione brusca di un incidente, la morte che è
possibile, la vita che a volte decide per noi e il Cielo che non si
comprende e che a volte si distrae.
Ho percepito netta,
da luglio ad oggi, la cesura violenta tra la vita di prima e la vita
di adesso.
Mi sono ripetuta che
col tempo tutto sarebbe tornato come prima e meglio di prima, che la
vita di oggi si sarebbe riallacciata a quella di ieri, che poteva
andarmi peggio e che dovevo essere solo felice, per essere qui.
Sì, la vita tornerà
pian piano come prima, meglio di prima, e il tempo tornerà ad essere
mio. Ma per sentire vicino il ricordo di uno degli anni più belli
della mia vita e che più mi hanno cambiato e permesso di sbocciare
per quella che sono, sento ora psicologicamente il bisogno di
ripercorrere, tappa per tappa, quello che per me è stato il Master
Mim, ciò che mi ha lasciato ed insegnato.
Barcellona
Qualcosa di non
facilmente definibile fa di Barcellona una vera città mediterranea.
Per un Master che intende porsi come un percorso volto ad esplorare
le relazioni internazionali di natura politica, geoeconomica e
sociale tra i paesi della riva Nord e riva Sud del Mediterraneo,
fornendo gli strumenti per le più varie figure professionali attive
nel campo, tre mesi di vita a Barcellona permettono di conoscere il
volto che l’Europa assume nel contesto mediterraneo, esplicitando
il carattere di “confine”, di “frontiera” che caratterizzano
le città di questo universo.
Elegante e
raffinata, culturalmente eclettica ed artisticamente superlativa in
quartieri come El Borne, l’Eixample e il Barri Gotic, per citarne
alcuni, placida, rilassata e rasserenante nel lungomare della
Barceloneta, un lato più oscuro e sordido, controverso e
affascinante emerge nelle vie interne del Raval, dove comunità
etniche delle più diverse provenienze, Marocchini, Pakistani o
Indiani, sperimentano le difficili prove dell’integrazione e della
convivenza.
Una natura meticcia,
cosmopolita e multietnica che emerge anche nel quartiere Poble Sec,
per non dire in tutta la città vecchia, anche se in modo più
composto ed ordinato.
Una vita notturna
stimolante, allegra e un’offerta artistica e culturale che di
giorno illumina la città aprendosi verso il mondo. Il Centro di
Cultura Contemporanea della Catalogna o il Museo d’Arte
Contemporanea di Barcellona, alcuni tra gli spazi culturali più
attivi della città, sono state mete frequenti, sia di giorno che di
sera, del gruppo di amici che quasi sin da subito si è andato
formando all’interno del Master. Un respiro europeo, mediterraneo,
cosmopolita che si respirava con allegria in occasione delle
esposizioni, dei concerti, delle confererenze ed altre iniziative
artistiche.
Un fascino, quello
di Barcellona, per il suo essere “sospesa”, a metà strada, tra i
suoi passi verso il moderno ed una storia maledetta (agli inizi del
XIX secolo il Raval, cuore della città vecchia, allora solo una
distesa di terre, era l’unica zona della città che permetteva la
costruzione di grandi edifici vicino al centro; con le fabbriche
aumentò anche la popolazione, soprattutto immigrati del Pakistan e
delle Filippine e le condizioni di vita di queste persone portarono a
Barcellona problemi di convivenza e gravi epidemie a causa della
mancanza di igiene. Così il Raval si trasformò in un ghetto nel
quale nessuno osava entrare, una zona maledetta conosciuta come il
“quartiere cinese” perché vi regnava lo stesso squallore e
affollamento della Chinatown di San Francisco).
Per i nostalgici di
quelle atmosfere noir
restano ancora alcuni segni di quell’antico squallore: bar di
prostitute con neon accecanti, locali sporchi e bui. Sembra ancora di
sentire l’odore di un passato fatto di spacciatori e trafficanti.
Al tempo stesso
però, quartieri alla moda, frequentatissimi dai barcellonesi amanti
dei locali multiculturali, caffé con musica, musei e circoli
culturali, ma anche negozi di tendenza e ristoranti etnici.
Presso l’Universidad
Autonoma de Barcelona, il più grande lascito a livello formativo
delle lezioni e seminari tenutosi nei tre mesi del modulo, è stata
per me la scoperta e lo studio più dettagliato ed approfondito del
mondo delle ONG, le Organizzazioni Non Governative attive nell’ambito
Mediterraneo e la creazione di un progetto di sviluppo che, nel caso
del mio gruppo di lavoro, riguardava lo sviluppo integrale dei
giovani nel Sud del Libano.
Mettersi in gioco
con creatività, facendo lo sforzo di ideare attività con un fine
preciso, cercando il coraggio di mostrare agli altri del gruppo le
proprie idee relative ad ambiti e finalità di una tale caratura è
stata per me una palestra importantissima e mi ha formato
incredibilmente a livello psicologico.
Ideare con libertà
relativamente a temi verso i quali si è fortemente sensibili,
scoprendo di essere del tutto in grado di partorire progetti validi
che prevedano attività creative e originali e che per farlo è
necessario appoggiarsi ad un gruppo di persone, con le difficoltà e
i vantaggi che ne derivano, forma a mio avviso molto più di
qualsiasi studio manualistico.
Scoprire che la
propria formazione precedente e la propria sensibilità ci offrono
molti degli strumenti necessari per tradurre in qualcosa di fattivo e
concreto le nostre speranze ed idee mi ha dato forza e ha fomentato
in me l’entusiasmo per mettermi alla prova in future attività di
volontariato, anche se attive in ambiti differenti e in contesti
molto diversi. Qui a Firenze esiste un’associazione attiva nel
campo dell’immigrazione ed integrazione ed ho deciso di
parteciparvi: mi rendo conto di contribuire con creatività,
proponendo progetti nuovi, perché l’esperienza di Barcellona mi ha
dato la disinvoltura di credere nelle mie idee e nella possibilità
di tradurle in qualcosa di concreto.
Più
specificatamente, le competenze assunte nelle modalità di
presentazione di un progetto di sviluppo ci hanno qualificato in
questo settore, competenze spendibili nei più vari campi, non solo
nella cooperazione allo sviluppo.
L’esperienza del
lavoro di gruppo, inoltre, è stata di per sé di cruciale
importanza.
Saper accettare che
il valore e la qualità del lavoro non dipendono solo da noi, che le
proprie idee e proposte possano non essere accettate e necessitino
dell’approvazione collettiva, che la tempistica personale deve
rispettare quella altrui e che è naturale che si sviluppino
dinamiche in cui ciascuno assume un “ruolo” rispetto agli altri.
Ruolo che si deve imparare a “gestire”, rispettandolo e al tempo
stesso rendendolo duttile alle diverse circostanze, esigenze e
situazioni. Capacità, queste, che in contesto accademico, almeno nel
mio caso, non si sviluppano né si potenziano, pur essendo vitali
nell’ambiente lavorativo a qualsiasi livello e in qualsiasi
settore.
Aver sperimentato la
formulazione di vari progetti in gruppi di lavoro costituiti da
studenti provenienti da università italiane, spagnole e francesi, ci
ha dato anche la possibilità di confrontarci con formazioni
accademiche e scolastiche di diverso tipo. Gli spagnoli, più
efficienti nelle abilità tecniche, come l’utilizzo di programmi
informatici più sofisticati, e al tempo stesso meno abituati alla
presentazione scritta dei diversi lavori (per uno dei progetti
dovevamo preparare per iscritto la presentazione di un progetto di
ricerca); non a caso, il sistema accademico spagnolo non prevede la
stesura di una tesi finale al termine del ciclo triennale, ma solo
per il ciclo magistrale.
I francesi,
rigorosi e puntuali nella presentazione del proprio lavoro ma meno
abituati alle decisioni collettive: più portati ad intendere il
lavoro di gruppo in modo fortemente gerarchizzato, in cui ognuno
contribuisce con la propria attività che va ad “addizionarsi”
alle altre, più che a intersecarsi.
Difficile giudicarsi
dall’esterno e pronunciarsi rispetto a quelle che fossero le
nostre, da italiani, caratteristiche nel lavoro di gruppo. Posso dire
che più volte ci è capitato di discutere con ragazzi stranieri
sulla cosa, e ci veniva segnalata una spiccata tendenza all’analisi
speculativa sulle varie tematiche che a volte però assumeva il volto
della polemica e della discussione fine a se stessa.
Se penso a qualcosa
di migliorabile, qualche aspetto che non mi ha del tutto
entusiasmato, devo dire che il livello e la coerenza con il senso
dell’intero modulo di alcune lezioni non sono stati, a mio avviso,
all’altezza dei progetti di lavoro e della didattica degli altri
moduli. A livello organizzativo inoltre, non sempre la segreteria
didattica era a nostra disposizione.
Infine, la
conoscenza della lingua spagnola al momento dell’iscrizione al
master sembrava utile ma non necessaria. Credo invece che per
affrontare il modulo di Barcellona nel modo più costruttivo e
soddisfacente possibile sia necessario un livello di conoscenza della
lingua, tutto sommato, adeguato.
Venezia
Venezia è un’oasi
rosa, raccolta, serena, tutta “interiore”.
Fatata nel suo
essere fuori dagli schemi, riflessiva, ha tempi lunghi: quelli delle
camminate, del “pensiero” a piedi, della bellezza che sorprende
ad ogni angolo, in ogni Calle.
L’acqua la
circonda e ne decide i ritmi, i tempi: ti ferma quando è alta e ti
costringe alla riflessione quando, per attraversare la città, non
hai auto ma solo un vaporetto e, sulla terraferma, la camminata.
Non si fa scoprire
facilmente, Venezia: ogni quartiere ha i suoi piccoli locali, le sue
frequentazioni, le sue abitudini, ma è “introversa”, raccolta, e
rifugge il caos, il rumore, i locali notturni festosi e confusionari.
E’ stato nel suo
ambiente elegante e riflessivo che abbiamo vissuto il secondo modulo
del Master, forse il più completo a livello formativo, che si è
nutrito di una docenza eccezionale di altissimo livello didattico.
Il caso ci è stato
amico ed è stato proprio durante il term di Venezia che la primavera
araba è iniziata: ciò ha permesso alla docenza di illustrarci
quadri storici ed interpretativi con i quali leggere gli avvenimenti
del momento, ci ha aiutato a mettere in relazione le nostre
conoscenze pregresse con ciò che stava accadendo e di percepire il
protagonismo dei nostri studi in quell’occasione.
Il livello delle
lezioni e dei seminari ai quali abbiamo assistito è stato, ripeto,
forse il più alto di tutto il Master. Professori di prestigio
internazionale, specialisti nelle loro discipline si sono presentati
a noi proponendoci chiavi di lettura nuove di ciò che avevamo
studiato, facendo ordine tra tutte le conoscenze acquisite nei nostri
percorsi accademici precedenti e aiutandoci a capire in che modo
avremmo potuto sfruttare le nostre competenze nel mondo del lavoro.
Dato il numero
cospicuo di docenti stranieri ed essendo passato del tempo da quando,
tra compagni del Master, ci eravamo conosciuti unendoci in rapporti
di amicizia, è stato a Venezia che mi sono resa conto con quale
elasticità e disinvoltura, passavamo da una lingua all’altra,
dallo spagnolo al francese, dal francese all’italiano e così via,
con naturalezza, percependola come una competenza ovvia, semplice,
che non ci stupiva nemmeno più tanto.
A Venezia,
soprattutto noi italiani per la ricerca dello stage, abbiamo contato
su uno staff organizzativo efficiente e a livello umano accogliente
e, per certi versi, materno.
Ognuno di noi è
stato accolto e compreso nelle proprie attitudini, consigliato nella
strada da intraprendere, seguito nelle proprie difficoltà e
perplessità sempre nel rispetto delle nostre naturali inclinazioni.
Rispetto al mio
stage, che purtroppo non si è potuto tenere, io mi sono sentita
compresa, aiutata, e ho avuto la sensazione che ciò non sia stato
fatto solo con me. Derive competitive sono state smorzate, per non
dire annientate, ci è arrivato semmai un messaggio tra le righe: che
ognuno di noi possiede un suo modo, unico ed irripetibile, di
contribuire al mondo del lavoro, con le proprie capacità e la
propria sensibilità.
Questo ultimo
aspetto, la nostra sensibilità, ho avuto la sensazione che sia stato
tenuto nel modulo di Venezia in grande considerazione: il seminario
di letteratura araba che abbiamo fatto, in cui, divisi in gruppi, ci
veniva chiesto di presentare, nel modo più libero possibile, le
nostre letture di autori arabi, ci ha dato la possibilità di
esprimerci creativamente, in piena libertà, portando la nostra
sensibilità ed emotività in scena, in comunicazione con gli altri.
E’ stato un seminario che ho amato moltissimo, che mi ha commosso
ed avvicinato ad alcune letture in modo nuovo, un modo che “parla”
della letteratura, a mio avviso, molto più di qualsiasi critico o
manuale. Ci ha avvicinato anche tra di noi, compagni del Master, che
piano piano eravamo sempre più amici e vicini l’uno all’altro:
ci ha dato l’opportunità di scoprirci nella dimensione più
profonda, quella dell’emotività, della sensibilità verso la
poesia, della ricezione della Bellezza.
Trovandomi in Italia
ed avendo avuto quindi la possibilità di tornare spesso a casa, a
Firenze, il modulo di Venezia è stato anche quello in cui ho più
percepito e compreso il grande cambiamento che stava avvenendo dentro
di me a seguito dell’esperienza che stavo facendo. L’essermi
confrontata con persone nuove, diverse, e più vicine per interessi e
sensibilità ai miei, l’essere vissuta in un contesto nel quale il
viaggio era la dimensione costante e la scoperta e la curiosità
l’unica vera religione, tutta umana, mi faceva col tempo sempre più
scoprire me stessa, vedere che stavo venendo fuori per quella che
sono, che mi sento di essere. E confrontandomi con l’ambiente e il
mondo della mia vita passata mi sentivo sempre più nuova e,
serenamente, lontana.
Meknés
Emilio è partito da
Meknés, Marocco, qualche giorno prima di me.
Sono stata a
trovarlo, nel suo piccolo appartamento affittato in centro, per
salutarlo e pranzare un’ultima volta assieme.
Emilio aveva
impacchettato tutto nei suoi zaini e si sarebbe diretto a Fez, prima
di tornare a casa, per alcune interviste necessarie alla sua ricerca
sul campo, una dei lavori a noi richiesti nell’ultimo modulo
Master. Avremmo potuto scegliere tra Montpellier, Francia, e Meknès,
Marocco. Io, avendo studiato arabo al corso di laurea triennale, non
avevo mai avuto alcun dubbio.
Ci abbracciamo,
sulla porta, prima di salutarci.
“Come sono strane
le partenze”, mi dice Emilio.
“Ora infilerò la
chiave nella toppa, chiuderò la porta e lascerò la chiave sotto lo
zerbino all’ingresso, come mi ha detto di fare il proprietario. E
non ci tornerò mai più. Questa, che per tre mesi è stata la mia
casa, la vedo oggi per l’ultima volta. La lascio adesso e la lascio
per sempre. L’ho sentita mia, gli ho voluto bene e ora la
abbandono, e non ci tornerò mai più. Quante case ho avuto mie e ho
abbandonato? Tante, tantissime”.
“Quante ne ho
avute io?” penso per un attimo, scendendo le scale.
Tante, ma non
abbastanza per come voglio vivere, per come credo di aver capito di
essere dopo questa esperienza.
C’è una cosa che
ho imparato in questo anno Mim, penso tornando verso casa, dalla
famiglia marocchina dove ho vissuto per tre mesi. A sviluppare, in
tempi rapidissimi, una forte affezione ai luoghi, con un altissimo
livello di adattamento, una quotidianità immediata anche se in mondi
lontani, nuovi, abituandomi ad affezionarmici pur sapendo che presto
li abbandonerò. A sviluppare ritmi, consuetudini, familiarità in
poco tempo, sentendomi sempre a casa, anche in un altro continente.
Perché la mia vera casa è dentro di me, nella mia visione del
mondo, nei miei ideali, nelle mie speranze e nel mio universo
affettivo.
Bab Mansour
è una piazza africana. L’ho pensato il primo giorno, appena
arrivata e l’ho pensato l’ultimo, partendo per l’aeroporto.
Assolata,
vastissima, popolata da mercanti e venditori di tappeti, giocolieri e
addomesticatori di serpenti, le donne arabe dirette verso il suq che
parte dall’estremità interna della piazza, hanno gli abiti
sgargianti e colorati delle donne africane per come le ho sempre
immaginate.
Si spintonano nel
suq vociando in modo scomposto, contrattano il prezzo con allegria,
ti guardano sospettose mentre attraversi le strade con lo sguardo
curioso, stupito, straniero.
Meknés è una città
piccola, lontana dal turismo di massa di una Marrakech o una Rabat,
ma è comunque una delle città imperiali, maestosa ed elegante in
alcuni luoghi di interesse, e al tempo stesso povera, disordinata,
pittoresca, nei quartieri meno turistici, un vero Marocco
nordafricano che non ha ancora conosciuto la volgarizzazione
occidentale. Non vieni assalito perché europeo e quindi possibile
acquirente di merci, e dopo un po’ quasi non ti stupisci più delle
scene incredibili a cui puoi assistere, dai venditori che procedono
con un carretto ad asino, ai mercanti del suq che pesano il cibo in
vecchie bilance di ferro in cui il peso viene misurato a confronto
con mattoncini di diverse dimensioni.
L’ho pensato uno
degli ultimi giorni quando ho visto una signora anziana, raccolta su
se stessa dentro un carretto pieno di fiori, che si faceva così
trasportare da un giovane ragazzo che con una corda tirava il
carretto dietro di sé.
Mi è sembrata una
scena dolcissima, e ho sorriso alla vecchina, come se fosse la cosa
più naturale del mondo. Mi sono resa conto in quel momento che mi
sembrava normale, che certe cose non mi stupivano più, quando fino
ai 21 anni la mia immaginazione intendeva gli spostamenti solo con le
auto o i mezzi pubblici.
Il modulo di Meknés
è stato per me il più riflessivo, forse il più difficile nei primi
momenti, e quello, forse, che mi ha lasciato di più, dal quale sono
tornata più cambiata, più cresciuta e più consapevole.
Ho vissuto per tre
mesi, come scrivevo, in una famiglia marocchina e questa scelta mi ha
dato la possibilità, oltre che di esercitare notevolmente la lingua
“darija”,
il dialetto marocchino, che a fine modulo potevo dire di utilizzare
con una certa sicurezza nelle più varie circostanze, di conoscere
davvero e dall’interno la vita di una famiglia araba, nordafricana,
con le sue contraddizioni, le sue difficoltà, le sue meraviglie.
Ho sperimentato cosa
significhi apprendere una lingua straniera di tale difficoltà per
noi italiani. I corsi di lingua, sia di dialetto che si arabo
classico, sono stati per me illuminanti, ben fatti, di alto livello.
A momenti,
soprattutto all’inizio, ho avuto attimi di sconforto, ho pensato
che no, non l’avrei mai imparata, era troppo difficile, troppo
diversa, mi sono sentita incapace, non all’altezza. E mi sembrava
di essere tornata bambina, perché apprendere una lingua da zero
partendo dalla comunicazione più elementare ti fa sentire così,
sempre più giovane, sempre più piccola. E col tempo ho scoperto che
non c’è niente di impossibile, niente che sia impossibile
apprendere. Ma soprattutto che non c’è niente che avvicini di più
nella distanza culturale che il mezzo espressivo, il tentativo di
apprendere la lingua, niente che ti renda agli occhi dell’altro più
dolce e tenero, più compreso, più vicino.
Boshra, la signora
della casa presso cui ho vissuto, quando Nicoletta, una delle ragazze
del Master, è venuta a trovarci, un’amica che aveva deciso di fare
il terzo modulo a Montpellier, avendo già fatto l’esperienza
marocchina l’anno precedente, e che aveva vissuto, anche lei,
presso la famiglia di Boshra, con tre parole ha espresso quello che
tra noi era accaduto da quando ero arrivata.
“Enrica è
bravissima. Da quando è arrivata, è come se fosse qui da sempre”.
Ed è vero, l’ho
provato anche io. Per questo ho passato la maggior tempo in casa, con
la famiglia, dedicandolo allo studio della lingua e vivendo a pieno i
ritmi familiari, le visite dalla nonna la domenica, le passeggiate
intorno all’isolato con i bambini, i sabato mattina al hammam
e le spese nel suq con la donna di casa, Boshra.
Nelle case
marocchine c’è sempre qualcuno. Gli invitati, i mu’aridiin,
i
passanti che ogni giorno offrono il loro tempo al padrone di casa,
come omaggio e occasione per ringraziare Dio.
Ualhamulillah. Rendiamo
grazie a Dio. Il tempo non ha meno importanza in Nord Africa. E’
solo ancora proprietà di Dio, e non degli uomini.
Gli ospiti
raccontano la loro vita e bevono thé, riposandosi nei divani del
salotto, dove l’uomo di casa, il padre di famiglia, in diversi
momenti della giornata stende un piccolo tappeto e prega Dio.
Tre divani, nel
salotto, stretti e lunghi, attaccati alle pareti. Le pareti
racchiudono lo spazio, lo spazio è protetto dalle pareti e le pareti
sono protette dai divani. Lunghi divani, lunghi e stretti, lunghi e
kitsch. Arabeschi d’oro, cuscini rosa e teli blu. Divani kitsch
pieni di cuscini, cuscini durissimi e ricamati, sopra i quali si
riposano i componenti della famiglia e gli invitati.
Un giorno è venuta
una femme
de ménage,
a casa, una signora delle pulizie. Boshra me lo ha detto quando è
uscita, tenendo gli occhi bassi, a terra, come sospirando al pensiero
della povertà e delle difficoltà economiche. Avevo cercato di
capire qualcosa, mentre parlavano in fretta, bevendo thé e mangiando
dolci, e avevo colto continui ringraziamenti a Dio, brevi riflessioni
sulla sua saggezza, sulle sue imperscrutabili decisioni, che non sta
a noi giudicare.
Parlano della
malattia del marito di Boshra, una cardiopatia per il quale è stato
operato, poco prima che io arrivassi e per la quale, mi ha detto un
giorno Boshra piangendo, hanno speso moltissimi soldi, e non ce la
fanno, non ce la possono fare, curarlo costa troppo.
La femme
de ménage la
consola e rimette a Dio il destino degli eventi.
L’eterna forza dei
semplici, di sapersi affidare e al tempo stesso non arrendersi al
proprio destino.
Boshra ha lo sguardo
serio, severo. E’ amorevole ma esigente nei confronti dei suoi due
figli, Youssef e Aitam, nove e quattro anni. Alta, giovane, e grassa,
come tutte le donne in Marocco.
“C’è un momento
in cui il marito bussa alla porta e la donna in Marocco non esiste
più. Esiste, sì, ma per il marito, per i figli, per gli invitati,
esiste per stare in cucina, preparare il thé, andare a lavoro. Le
donne in Marocco lavorano, qui, non si vive con un solo stipendio. E’
così, la nostra vita. Scorre, fino alla fine. E noi non siamo come
voi. Non conosciamo niente di diverso. Per questo non proviamo
invidia, e non cambiamo”.
Me lo disse qualche
giorno dopo il mio arrivo, Boshra, parlando di una donna europea che
un giorno aveva pranzato con loro e che le era sembrata molto più
giovane perché magra, ben vestita e truccata.
“Mi fa piacere che
sei qui, Enrica. I miei figli mangiano in fretta, mio marito si
riposa. Tu invece resti sempre qui, con me, e parli.”
Boshra nei primi
tempi mi studiava sempre seria, con i suoi enormi occhi a mandorla,
neri. Era senza velo, in casa, e portava spesso una coda lenta, da
ragazzina, come quella che portavo io.
Qualehe capello
bianco, pochi, ha 36 anni. Il corpo andato di una donna matura,
prossima all’obesità, e gli occhi e la pelle di una ragazza
giovane che sotto il pigiama, con cui stava in casa il più delle
volte, copre un seno florido, ancora bello.
Un pigiama ruvido,
bianco e sporco, che copre male un seno enorme e una pancia obesa.
Sotto la jellaba,
il vestito tradizionale, la donna marocchina porta sempre il pigiama,
anche quando è fuori. Si cambia poco. Sotto l’abito lungo e
ricamato, sotto i colori accesi e gli arabeschi kitsch, trascina la
sua vita di casa, anche dentro al suq. Tra la folla, il cibo
avariato, il banco del pesce e la gente che spintona, sotto il velo
colorato e la jellaba
sgargiante,
c’è la sua vita di sempre e la sua sottoveste ruvida e gialla, che
non cambia mai.
In una casa araba i
tempi sono condivisi, si fa tutto insieme. Si mangia insieme,
rigorosamente, ci si riposa insieme, si esce insieme e si va a letto
insieme. L’unità della famiglia è un valore, rigidissimo, a cui
tutti si attengono, perfino Aitam, di quattro anni. Solo Boshra,
però, alle sei è in piedi, si alza, da sola, prepara la colazione e
aspetta che la giornata dei propri figli e del proprio marito
cominci. Torna dal lavoro, è maestra di arabo classico in una scuola
elementare, prepara la merenda delle sei e sistema la casa. Prepara
la cena, e va a letto. Non ha mai un momento per sé.
Solo al hammam,
quando la vedo distrarsi e vedo il suo sguardo perdersi in un vuoto
indecifrabile, lontano, fatto di sogni e fantasie inconfessabili, mi
sembra di vederla in una dimensione privata, intima, tutta personale.
Mi sembra di vederla donna, che si prende cura di sé, occuparsi del
suo corpo e della sua bellezza con cura, strofinandosi con forza,
dovizia, per ore.
“Mi piace venire
qui.”, mi dice un giorno. “Quando sono stanca, vendo al hammam,
e mi rilasso, al caldo, da sola. E’ molto rilassante per me”.
E’ qualcosa di più
del relax per lei, penso. E’ un momento in cui c’è solo lei, che
pensa a se stessa, e nessun altro di cui prendersi cura.
Il primo giorno che
sono stata al hammam
avevo quasi paura. Un hammam
di
quartiere, piccolo, poco pulito, frequentato da gente locale. Un
calore irrespirabile e una folla di donne nude, chiassose,
grassissime, corpi nudi che si strofinano, si lavano, si fanno
massaggiare dalle donne del hammam
in servizio.
Di fronte ai due
rubinetti, uno con l’acqua calda e uno con l’acqua fredda, non
sapevo cosa fare. Ho aperto l’acqua calda e mi sono bruciata,
scottandomi la mano. Una signora al mio fianco ha sorriso,
intenerita, e ha miscelato l’acqua nella bacinella che avevo a
disposizione. L’ho ringraziata.
“Ualidii
ualidik”,
mi ha risposto sorridendo. I miei genitori sono i tuoi genitori.
Una delle
espressioni marocchine di ringraziamento che nella sua semplicità
esprime tutto il senso sacro e popolare della visione del mondo
musulmana.
Siamo fratelli e
sorelle e siamo vicini, perché Dio è padre mio e padre tuo.
Nelle case
marocchine si mangia rigorosamente dallo stesso piatto. Un enorme
piatto al centro, ricco di succulente pietanze. Con una mollica di
pane si raccoglie il cibo, qualcuno anche con le mani. Il cous-cous,
uno dei piatti tipici, a volte viene ridotto a pallina, con la mano,
e messo in bocca, come un tozzo di pane.
In un pranzo dalla
nonna di famiglia, la madre di Boshra, è stata l’unica volta che
ho avuto quasi difficoltà a mangiare. Al centro dell’enorme piatto
c’era un pollo, oleosissimo, che la nonna, a un certo punto, ha
cominciato a fare a pezzi, a mani nudie distribuendolo tra i
convitati che ringraziavano gioiosi.
Un momento di
difficoltà ma ho mangiato, ringraziando. Perché in Marocco non si
possono fare complimenti, non si può rifiutare.
E’ questo il
codice inviolabile dell’ospitalità sacra marocchina, uno dei più
grandi lasciti degli uomini del deserto. L’ospitalità è una
dottrina, un’arte, che colora la vita di chi viene ospitato così
come dell’ospite. Nel momento in cui si varca una soglia
accogliendone i doni offerti dalla casa, si è fratelli, uguali,
servi e inferiori solo a Dio. Per questo i complimenti occidentali
sono un concetto estraneo: in Occidente l’ospitalità è bene, ma
contiene in sé il senso del sacrificio, dell’impegno, presuppone
uno sforzo rispetto al quale l’educazione dell’ospite impone
qualche attimo di riserva, in cui si tende a rifiutare. Per il mondo
musulmano no: sarebbe inconcepibile.
Partita per il
Marocco mi ero portata un sacco a pelo, caso mai ne avessi mai avuto
bisogno, in una piccola sacca di tela blu.
“Enri, lascialo
qui.”
“Cosa?”
“Il sacco a pelo.
Enri, mi ascolti? Forza, muoviti, lascialo qui, così quando vuoi
dormi da me.”
“Quando voglio?”
“Sì, quando vuoi.
Quando scappi dal cibo di Boshra, ché stai diventando quadrata.” E
ride.
Nadia, la mia amica
Nadia. Me lo avrebbe detto uno dei primi giorni, una sera, appena
arrivata, indicando l’angolo quadrato della sua stanza dove, sopra
un rettangolo di coperte polverose, una sull’altra, avrei dormito
ogni tanto, spesso, tutte le volte che, dopo lezione, il tempo
sarebbe passato, lentamente, fino a farsi tardi.
Le dieci, le undici,
tardi. Troppo tardi per una famiglia marocchina e una madre che alle
sei si alza, prepara la colazione e aspetta che arrivino le otto.
Ride, Nadia. Abbassa
la testa, alza le sopracciglia. Mostra i suoi denti grandi,
bianchissimi, le sue labbra carnose e mulatte, da donna nera.
“Non vedo nulla,
Nadiuzza, non c’è luce.”
C’è solo una
lampadina, nella sua stanza, un’ampolla gialla sopra un tavolino
basso pieno di cose piccole e inutili.
“Che belle che
sono, ma dove le trovi?”
“Ma che ne so,
ovunque.”
“E quante cose ti
sei portata?”
Tantissime. Si è
portata tantissime cose, Nadia, tante piccole cose belle con cui
decorare le giornate come se fossimo a casa. Anche in Marocco.
“Ana min
Talian, ualakin ualidii min Ghana.
Sono italiana, ma i miei genitori sono ghanesi. Ma come mi guarda
questo, Enri, rassegniamoci, i marocchini non capiscono il nostro
arabo.”
Ride, Nadia, abbassa
la testa e solleva le sopracciglia. Ti guarda negli occhi ma dal
basso, la testa tra le spalle e lo sguardo verso l’alto. E’
bassina, bassissima. Sorride, contiene il suo sarcasmo, l’ironia
saggia di chi prende in giro ma senza ostilità.
Ana min Talian,
ualakin ualidii min Ghana.
“Sei sicura di partire, Sampong? Una donna, e nera. Si è più
cattivi con chi ci è vicino. Per questo è forte, il razzismo, in
Nord Africa, molto più di quello che pensiamo noi, che crediamo che
sia nero tutto quello che noi non siamo.”
“Grazie, lo so,
l’ho sempre saputo. Ed è proprio per questo che voglio partire.”
Nadia, la mia amica
Nadia. Non ha avuto paura del razzismo quando è arrivata.
“Hai notato
qualcosa di diverso Nadiuzza?”
“No, come a
Vicenza, niente di più.”
Ti sbagli, Nadia,
non è vero. E non ho il coraggio di dirtelo. Non ho il coraggio di
dirti che nella casa in cui ho abitato non saresti mai potuta
entrare. Perché Boshra ti temeva. Perché sei donna, e nera, e porti
sfortuna.
Il giorno in cui
sono arrivata ho mostrato a Boshra il sacco a pelo, per non
disturbarla ed evitare che usasse lenzuola nuove per me, non ancora
consapevole del fatto che questo mio gesto sarebbe stato frainteso in
quanto inusuale, percepito come rifiuto di qualcosa che mi veniva
offerto, da sorella a sorella.
L’ho offesa,
quella sera. La sera in cui quella stanza diventava mia e i due figli
di Boshra passavano al lato del letto dei genitori, tra il muro e il
matrimoniale, sopra un materasso basso e ruvido di coperte vecchie,
una sull’altra, piegate in due.
L’ho offesa,
perché mostrando il mio sacco a pelo avevo rifiutato le sue lenzuola
pulite e senza volerlo avevo segnato, ai suoi occhi, una distanza
precisa tra me e lei.
E’ la più triste
delle incomprensioni, il tornaconto più amaro dei disequilibri
sottesi alle migrazioni globali.
La sfida rabbiosa e
l’impegno cieco di coloro che restano nel difendere l’immagine di
chi se ne è andato.
Di chi ha deciso di
invertire un equilibrio ingiusto e di disegnare un destino diverso
per i propri cari. Di chi ha abbandonato la sponda arida e povera del
Mediterraneo e ha tentato una strada nuova e un futuro a Nord.
Chi resta osserva da
lontano il loro fallimento. Vede il bacino del Mediterraneo farsi
sempre più grande, i destini delle due sponde sempre più lontani.
Vede i propri cari fallire, aggrapparsi ad un’Europa che li
incattivisce e li respinge. Li vede soccombere, e man mano farsi
sempre più stretto il nodo dei loro destini nel laccio della morsa
globale.
Smettono di
piangerli, smettono di aspettarli. Alcuni si fanno complici di
un’Europa cattiva, iniziando a invidiarne costumi. Altri, invece,
ne temono il disprezzo, difendono rabbiosamente la propria terra,
fino all’esasperazione. E così come aprono allo straniero la loro
casa come a un proprio fratello, secondo i rituali sacri e antichi
dell’accoglienza dei popoli del deserto, così serrano le proprie
porte all’improvviso, per sempre, non appena li ferisce la lama
dell’arroganza e del disdegno anche quando non esiste, ed è solo
un riflesso delle proprie paure.
Boshra mi ha
insegnato il senso profondo e sacro dell’ospitalità. Mi ha
insegnato che il sacrificio e la disciplina possono anche
impreziosire l’esistenza, non solo appesantirla. Che la felicità
può passare anche attraverso una famiglia rigida, il cui codice
culturale congela le inclinazioni in ruoli fissi, e statici. Nei tre
mesi in cui ho vissuto con lei, la sua apertura nei miei confronti è
stata tale che adesso la sento qui, non sono lontana. E’ con me.
Non l’ho lasciata in un quartiere di periferia di un piccola città
del Marocco, nella terra arida e povera del deserto dove le vite si
consumano in silenzio, senza fare rumore.
Lei è qui, la sento
ridere e pregare. Portare in tavola il suo piatto preferito e
aspettare i complimenti, come una bambina. Sgridare i figli perché
non vogliono mangiare e poi piangere, da sola, per averli picchiati.
In tre mesi i nostri
ricordi si sono intrecciati, per sempre, e la mia vita ha preso un
corso diverso, che non conoscevo, e di cui anche lei, con le sue
preghiere e le sue ingenuità, mi ha indicato la strada.
Ma la sera in cui ci
siamo incontrate, la sera in cui quella stanza è diventata mia, è
bastato un sacco a pelo blu per allontanarci.
E’ bastato
rifiutare delle lenzuola pulite perché si insinuasse in lei il
sospetto di un disprezzo e di uno sdegno, che non c’era.
Qui, e fuori.
Io, e gli altri.
L’esperienza del
Master mi ha, come ho già scritto, dato la possibilità di sbocciare
per quella che sono, che sento di essere.
Non solo ha
arricchito le mie conoscenze e competenze dandomi la possibilità di
affacciarmi sul mondo del lavoro con più consapevolezza, creando
ordine tra le varie conoscenze acquisite durante il percorso
triennale.
In primo luogo, ha
rivoluzionato il mio senso della mobilità. Ho capito che la mia casa
è dentro di me, è tutta interiore, e che la mia vita sarà fuori,
spostandomi spesso, scoprendo quello che c’è al di là perché la
mia curiosità e la mia sensibilità necessitano di stimoli che
provengono da tutto quello che il mondo può offrire.
Che siamo tutti
uomini, vicini l’uno all’altro, e che se la cultura ci allontana,
l’umanità ci unisce.
Ho sviluppato un
altissimo livello di adattamento a contesti di vita molto differenti
e una capacità, in tempi brevi, come scrivevo, di sviluppare il
senso dell’abitudine, della quotidianità, di affezionarmi ai
luoghi e di ricordarli sempre, come una parte di me.
A livello affettivo,
viaggiare implica la distanza e l’allontanamento.
Ma chi viaggia, ho
capito, deve imparare a pensarsi da lontano.
Chi viaggia si
rincontra, un giorno, nel giro confuso delle proprie vite, e ha un
imperativo, che lo accompagna sempre, ovunque vada: non dimenticare,
mai.
I sentimenti, per
chi viaggia, implicano il ricordo, la dimensione interiore.
L’essere rientrata
in un contesto “classe” a 24 anni, dopo gli anni di università
in cui si emerge nella propria individualità ed autonomia, mi ha
dato la possibilità di rimettermi alla prova nei rapporti con gli
altri, soprattutto nei lavori di gruppo, in cui ho scoperto cosa
significhi lavorare “in équipe”,
assumendo specifici ruoli che si deve sempre avere la capacità di
trattare in modo duttile, sapendo metterli in discussione e
all’altezza delle varie circostanze e situazioni.
Soprattutto, essermi
trovata a lavorare e a confronto con persone con una sensibilità,
interessi e percorsi accademici simili ai miei, mi ha permesso di
mettermi in discussione, rendendomi conto come le mie esperienze
potessero essere limitate, semplici, al confronto di quelle di altri,
che avevano viaggiato ed imparato molto più di me.
Mi sono resa conto
di avere un livello di arabo piuttosto basso a confronto di altri
coetanei e di necessitare di numerose esperienze in paesi in cui
possa imparare meglio la lingua.
Al tempo stesso
però, ciò mi ha dato l’opportunità di riflettere su cosa
significhi crescere, maturare, accumulare esperienze.
Contano certo i
percorsi formativi, le esperienze all’estero, le conoscenze
apprese. Ma crescere è prima di ogni cosa un percorso interiore,
personale, che si può fare ovunque, anche accanto alla propria
famiglia, ai propri cari.
Prima di cominciare
il Master, ero ossessionata dall’idea dell’ “età”. Terminare
gli studi il prima possibile, cominciare a lavorare il prima
possibile, imparare le lingue il prima possibile.
Un’esperienza come
questa, che mi ha messo di fronte alla più diversa varietà umana,
che mi ha fatto lavorare con ragazzi coetanei, ma anche più grandi,
o più piccoli, mi ha reso consapevole di quanto fossero sciocche
queste riflessioni tormentate sul tema dell’età.
Quanto, a
prescindere dai titoli di studio, avare una certa età o qualche anno
di più facesse la differenza, in termini di creatività rispetto
all’immaginare i propri percorsi formativi e lavorativi, a
riflettere su ciò che studiavamo o che ci accadeva.
La vita non è un
treno che scorre sopra un binario precostituito, e non vince chi
arriva prima. Il percorso lo decidiamo noi, con i nostri tempi, le
nostre esperienze, e più tortuoso, confuso e complesso è, più può
essere affascinante ed appagante.
All’aeroporto di
Pisa, Caterina, tornata con me dal Marocco, si sarebbe diretta verso
casa, in Sicilia. Io avrei preso il treno e sarei tornata a Firenze.
Caterina. Abbiamo
passato un anno insieme. Abbiamo riso, scherzato, pianto, abbiamo
litigato, perfino, qualche volta. E ora ci saremmo abbandonate per
sempre.
Ci abbracciamo, gli
occhi lucidi.
Caterina mi sorride,
i suoi grandi occhi scuri mi guardano con intelligenza, e commozione.
“Buon ritorno a
casa Enri” mi dice.
“Mi raccomando.
Non dimenticare.”
“Te lo prometto,
Cate.” rispondo, trattenendo il respiro.
“Te lo prometto.
Non dimenticherò”.