venerdì 19 dicembre 2014

The Girl and The Fish

The Girl and The Fish
The Story of the Beginning
To George Toth

At the beginning of times, when Earth was still a cold, desolate wasteland, there was no Sun to warm the beings. Sun was there, 150,000,000 kilometres far from Earth, as it has always been. But a thick layer of grey cloud and dust was keeping the warmth away, preventing life from flourishing. 

Still, there were beings on Earth. Lonely creatures wandering in solitude across that barren land. They were far from from each other, even if they would encounter each other. They would not know how to speak, they would not know what to feel. No language, no communication was on Earth at that time, and the beings were moving around just waiting for death to come, and take them away. 

There was a girl as well. A solitary little girl. Sad and lonely, she would walk and wait, for her life to pass. She would sleep, awake and walk. All the time, the whole time. 

One day, something happened. The girl found a pond. The sky was grey, the air was cold, the girl was wandering, nothing was different to what it had always been. But  something different happened as the girl found a small pond, and stopped. 

She sat by the pond and did nothing. She was lonely and miserable, as she had always been. So she was expecting nothing from that little pond, as nothing she had ever expected in her young life. Nothing, in that grey land, had really ever happened, so she could imagine nothing and could await nothing. 

She was dangling her skinny white legs in the cold, dark water, when something woke her up from her dreamless existence. A fish had bumped into her legs. He too was wandering and had not noticed those white legs.

‘What are you doing here, in my way’, the fish thought, and wanted to ask. And the will to talk, for the first time on Earth, became real. 

No words could be told with no language, no language could exist between a fish and a little girl, but the power of the will, the warmth of feeling, could open up that thick grey layer a tiny bit and let the light of Sun come in. 

‘Take me home’, the girl thought, in response. And the light broke in a little, again.

From that time on, every day, the girl would come back to the pond, and sit. She would wait, and the fish would come. He would swim between her legs and ask his question. 

‘Where is your home, why are you here, when will you be back’. ‘Take me home’,  she would answer, always, and the light, for a second, would come in, every time. 

One day, the girl came to the pond and talked first. ‘Take me home’, she said. She put her legs in the water and did something she had never done before. She let her body fall, into the dark, cold pond. Panicking that the girl would drown in the water, and abandon him forever, the fish questioned, ‘What are you doing? Do not leave me alone’.

But in the pond with him, the girl was not to die, but to live forever. She would swim around the fish, and smiled at him for the first time when he came close. And she could touch with her nose his little gills.

They would swim around each other, for all the times to come. 

‘Take me home’, the girl would say. ‘We are home’, the fish would answer. And their talk, their love, their bodies swimming around each other, burst out so much power, that the light would come in and slowly break into the thick grey dust. For every word they spoke, the light would come in a little. 

Warmth came to Earth, and life flourished. No god was out there to bring life to Earth. Just the girl and the fish, and their never-ending love, until the end of times.

‘Take me home’ the girl would say. ‘We are home’ the fish would answer.

martedì 26 novembre 2013

Quello che resta

CAPITOLO QUARTO

Dio mio, Mattia. Ti rendi conto o no?”

Mari si passò le mani tra i capelli raccolti all’indietro, guardando intorno a sé nervosamente. Era scesa fuori di casa in fretta, mettendosi addosso i jeans stretti da lavare e il piumino nero lucido che non si chiudeva, con la cerniera rotta. Era entrata in macchina dove l'avevo aspettata per pochi istanti - si era presentata al nostro incontro puntualissima, come sempre – e, intrappolata al sedile, immobile e concentratissima, mi aveva ascoltato per dieci minuti, in silenzio. Senza dire una parola, aveva seguito i miei balbettii, le mie narrazioni confuse, per tutto il tempo che mi era servito ad affastellare disordinatamente le mie confessioni. Guardandomi dritto negli occhi, aveva accolto il mio smarrimento senza commentare, frugando in silenzio nel mio sguardo perso senza palesare un giudizio. E, passato qualche minuto dalla fine delle mie parole, si era espressa, lapidaria.

Dio mio, Mattia. Ti rendi conto o no?”

Aveva i capelli raccolti un po’ sporchi ed era struccata, come non era quasi mai. Si era sempre truccata poco, Mari, ma quasi sempre metteva un mascara nero che le rendeva gli occhi piccoli ancora più scuri, ancora più all’erta, e che le dava quell’aria semplice ma curata, da ragazza sana. E i capelli, quasi sempre rigorosamente legati in una folta coda alta, non erano mai lasciati alla trascuratezza, erano sempre impeccabili, puliti e ordinati. Alta e magra, era sempre stata in forma, Mari, la pelle del viso chiara e compatta e il corpo tonico, slanciato, da sportiva, quel culo piccolo sotto i jeans attillati che mi faceva impazzire. Quel giorno era trascurata e stanca, ma era sempre lei, bella e pulita.

Dio mio, Mattia. Ti rendi conto o no?”

Mi passai due dita sotto il colletto della camicia. Stavo sudando. Una corda ispida e pungente mi stringeva le gambe e le ginocchia in una morsa d’ansia. Dal basso, la corda saliva e intorno al petto si contorceva stretta a serrarmi il battito. Ad ogni respiro la corda tirava, la morsa stringeva e il dolore al petto rimbombava sonoro fino alle tempie, in attesa della stretta successiva.

Mi rendo conto, Mari, mi rendo conto, ma...ma io cosa posso fare....cosa devo fare”.

Deglutii a fatica. Avevo la gola secca. Sentivo la schiuma bianca ai lati della bocca diventare sempre più vischiosa, la pelle tirata sempre più calda. Sentivo il viso contrarsi, irruvidirsi, come se stessi dimagrendo di colpo, in pochi minuti.

L’ha vista Lorenzo, ieri mattina...dice che è sana, che dovrà vederla anche un pediatra, ma che sicuramente è una bambina normale. Ha detto che l’esame delle ossa conferma l’età dei documenti...e che si informerà per il neuropsichiatra...ma...ma che a lui è sembrata serena, solo molto silenziosa”.

Mi fermai un attimo. Respirai a fondo, come per entrare in apnea. “Le maestre dicono che è bravissima...sa già leggere e scrivere, parla inglese correntemente. Capisce il francese, senza problemi...ma tende a non parlarlo. Dicono che è sempre molto silenziosa, attenta e che è molto ubbidiente”.

Mari alzò la testa di scatto per voltarsi due secondi verso di me e guardarmi fisso. Si passò le mani magre e lunghe sopra il viso pallido e pulito e riprese a fissare di fronte a sé, gli occhi piccoli e intelligenti concentrati su un punto lontano che non riuscivano a mettere a fuoco.

Maria, la mia amica Mari. Il giorno in cui ci eravamo conosciuti, Elis era entrata in classe timidamente, pochi passi dietro una sagoma atletica e spigliata, la sagoma di Mari. Sicura, Mari l’aveva accompagnata dentro l’aula, la falcata lunga, il sorriso deciso, i capelli raccolti in una coda di cavallo altissima. I capelli semplici e ordinati di chi è abituato a prendersi cura di sé con praticità, senza troppi lussi.

Mari. Le sopracciglia sottili, i denti grandi e bianchi, il suo sorriso estroverso ed immediato, da ragazza semplice. Era bastato il suo ingresso un po’ irruento, quella mattina, il suo accento di paese e il suo abbigliamento attillato di seconda mano, da mercato, per farmi chiedere cosa ci facesse tra noi. Solo molto tempo dopo scoprii che rientrava in una categoria sociale protetta che accedeva a quegli studi per altre vie rispetto ai criteri rigidi con i quali noi eravamo stati selezionati. Anche il diploma finale era un altro e lo sarebbero stati anche i corsi, se lei non li avesse seguiti tutti perché, mi avrebbe detto un giorno, la borsa di studio che lo Stato le erogava per il mantenimento agli studi veniva calcolata in base alle ore di lezione frequentate.

La madre di Mari era affetta da una grave malattia neuro-degenerativa, la rara e incurabile corea di Huntington. Da quando Mari era nata, fino a più o meno la sua maggiore età, la madre sarebbe potuta sembrare niente più che una donna goffa, impacciata, poco intelligente e con un pessimo carattere. Nessuno si sarebbe mai potuto immaginare, per quanto la natura progressiva del disturbo fosse sempre stata evidente, cosa un giorno la madre di Mari sarebbe diventata. Intorno alla maggiore età della figlia, la donna aveva perso in modo assoluto il controllo dei suoi movimenti. Il suo corpo avrebbe cominciato a contorcersi in modo anormale, spasmodico, in torsioni e movimenti ripetitivi che le impedivano il normale svolgimento di qualsiasi attività quotidiana. I repentini sbalzi di umore che aveva sempre avuto sarebbero esplosi in accessi violenti di rabbia psicotica, incontrollabili e immotivati, illogici e improvvisi. E le capacità cognitive, la memoria e la capacità di concentrazione, se mai erano state brillanti, sarebbero deteriorate a velocità sempre più rapida, fino a farla tornare, quando Mari era ormai donna, una bambina.

Mari, a diciott’anni, era già lei, con la sua intelligenza pratica e concreta, la sua onestà cristallina, la sua saggezza semplice e pragmatica. Si era diplomata all’istituto professionale e subito dopo aveva cominciato a lavorare come barista in un locale notturno di periferia. Non avrebbe mai studiato all'università se non fosse stato che, facendolo, avrebbe goduto di una borsa di studio tanto alta da farle pensare che studiare e lavorare part-time economicamente le fruttava di più che lavorare a tempo pieno. La natura di Mari non era fatta per studiare. Mari era su un altro livello. Dei libri, Mari non aveva bisogno. Io non ero così, non ero alla sua altezza, ma Mari non la vedeva allo stesso modo. Non avrebbe mai potuto capire quanto io la invidiassi. Non fa per me Mati, non fa per me studiare. Io non sono come voi, io sto al mio posto solo dietro al bancone. Una delle tante notti in cui era venuta a trovarmi, una delle tanti notti in cui ci eravamo fatti compagnia sfidando la solitudine come solo due amici di sesso opposto sono in grado di fare, dopo aver fatto l’amore io l’avevo riempita di baci sul viso e lei mi aveva confessato, come non faceva mai, quella che lei considerava la sua peggiore debolezza. E tante volte lo avrebbe fatto, in seguito, ripetendo sempre le stesse parole. Io non sono come voi, Mati, io non sono fatta per studiare. Io sto al mio posto solo dietro al bancone.

Mari, ho bisogno del tuo aiuto. Mi devi dare una mano. Me lo devi. Me lo...me lo devi”.

Maria non mi doveva proprio niente. Non era tenuta ad ascoltarmi, non mi doveva alcun aiuto. Non sarebbe stata tenuta a scendere le scale quella mattina, non le era dovuto entrare nella macchina che avevo parcheggiato sotto casa sua per incontrarla. Non era tenuta ad aiutarmi, trascurata, stanca, i capelli sporchi raccolti all'indietro e il viso bello, pallido e teso di chi ha lavorato al bar fino alle 5 e si è dovuto svegliare poche ore dopo. Lo sapevo, lo sapevo benissimo, Maria non mi doveva niente. Avrei potuto ammettere i miei limiti, la mia inferiorità, e dire ho bisogno di te, non ce la posso fare da solo, ti prego aiutami perché da solo non sono in grado, ma io non ero come lei, non ero in grado, non ero lei, quindi inghiottii a fatica per recuperare il respiro e rimpossessarmi del mio battito e insistetti. “Me lo devi. Devi darmi una mano”.

Insistetti perché sapevo che con Mari potevo farlo, lo avevo sempre fatto. Ero vigliacco, non ero come lei e sapevo come Mari avrebbe preso le mie parole e come avrebbe reagito. Per Mari, la mia era una richiesta di aiuto, nient'altro. Una semplice richiesta d'aiuto, una mano, devi darmi una mano. Chiunque altro sarebbe sceso dalla macchina e se ne sarebbe andato, offeso dal mio 'me lo devi', 'devi darmi una mano'. Io sarei sceso dalla macchina e me ne sarei andato, indignato. Ma per Mari chiedere aiuto era chiedere aiuto, niente di più. Con lei non c'era bisogno di complicare le proprie richieste ammettendo la propria debolezza e il bisogno di rivolgersi a lei.
Non c'era bisogno perché Mari non riempiva di significato i gesti e le parole altrui, non costruiva la realtà intorno alle idee. Quindi 'devi aiutarmi a portare su la spesa', 'vado in vacanza devi aiutarmi col cane' e 'una pazza mi ha lasciato in mano una bambina di cui so solo il nome ed è sparita, devi aiutarmi e fare da madre alla piccola perché io non sono in grado di farle da padre' erano la stessa cosa, semplici richieste d'aiuto. Le parole, per Mari, erano parole, e le azioni, azioni. Non attribuiva un senso altro alle parole e un'interpretazione ai gesti. I concetti, i principi, le idee erano per lei solo infrastrutture che appesantivano la realtà e la mistificavano, complicando inutilmente la distinzione tra bene e male.
Per Mari esisteva solo il giudizio. Il bene o il male. Con le azioni o le parole potevi fare, alternativamente, bene o male. E interpretare, per Mari, non era che il vigliacco strumento della mistificazione.

Quando la madre di Mari aveva cominciato a peggiorare, la zia per parte materna con cui Mari e suo fratello, di ben 13 anni più giovane, erano cresciuti, se n'era andata. Mari era ebrea per parte di madre. La zia, ebrea ultra-ortodossa, aveva educato i due fratelli secondo le dottrine rigide dell'ortodossia più severa. Mari parlava yiddish ed ebraico moderno. Erano state questa competenze linguistiche poco comuni a permetterle l'ammissione al Master. Fino ai vent'anni, aveva pregato tutti i giorni tre volte al giorno, al mattino, al pomeriggio e alla sera. Tutti i sabati non aveva mosso un dito, nel rispetto più assoluto del riposo dello Shabatt. Si era attenuta con la massima precisione alle regole alimentari del kosher e anni dopo, quando avremmo mangiato insieme, l'avrei osservata tante volte guardare con sospetto il cibo treif nella forchetta, indugiare qualche secondo e poi buttare giù, con celata riluttanza, combattendo con se stessa e l'abitudine di anni. La sua coda alta ed ordinata, i suoi capelli scuri e folti sempre rigorosamente raccolti nascondevano l'abitudine fin da piccola alla cura ligia della sua persona nella piena modestia e pudicizia.

Una mattina dei suoi vent'anni, Mari aveva trovato la zia in camera da letto, all'alba, mentre riempiva confusamente una valigia piccola, troppo piccola per una partenza definitiva. L'aveva vista riempire la valigetta a scatti, rabbiosamente, infilando i vestiti sgualciti uno sull’altro senza un ordine, senza guardarli, scegliendoli a caso e stipandoli nella valigia con rabbia, con odio, come se li stesse punendo per il loro essere necessari mentre lei voleva partire, partire subito, abbandonare tutto, e non tornare più. Mari era rimasta sul ciglio della porta per qualche minuto, in piedi, immobile, osservando il disagio psicotico espandersi, nella psiche della zia, come petrolio. L’aveva guardata a lungo, senza dolore, senza paura, solo osservando il suo sguardo fisso e i suoi movimenti scattosi mentre la follia si impossessava di lei una volta per tutte, dilagava a macchia d’olio nel suo corpicino contratto, superava gli argini della diga fragile nei quali per anni era stata rinchiusa e repressa, confinata nel fanatismo cieco e nel puritanesimo ossessivo, che non è di nessuna religione e di tutte quando non sono più fede ma solo follia. Dove vai, aveva detto Mari, parto, aveva risposto la zia, è giunto il momento, ho sentito la chiamata, il prossimo anno a Gerusalemme. La zia sarebbe partita per il Golan con un gruppo di coloni, e Mari non l'avrebbe vista mai più. Per anni Mari si sarebbe occupata da sola della madre e del fratello, tanto più giovane di lei. Per anni, prima della 'cosa più brutta', come la chiamava Mari. Per anni Mari avrebbe studiato, lavorato e imboccato lavato addormentato curato portato in bagno amato la madre, facendo per lei tutto quello che si può fare e pensare per una creatura viva, da sola. La mattina della partenza della zia avrebbe risposto al fratellino più piccolo, tanto più piccolo, di soli 7 anni, che la zia, sì, era morta. E' volata in cielo, gli avrebbe detto, ma non devi piangerla perché lo ha voluto, perché sì, Mari la voleva morta, e solo nella fantasia del fratellino sua zia sarebbe potuta morire.

Avevo conosciuto Mari prima della cosa più brutta. L'avrei continuata a conoscere, a parlarci, a farci l'amore, a volerle bene, anche dopo. E così come prima, dopo, Mari sarebbe stata sempre la stessa. Avrebbe osservato le ingiustizie, le perversioni, le storture della vita e le avrebbe affrontate con una decisa scrollata di spalle, cercando coraggiosamente una soluzione pragmatica che le consentisse di sopravvivere. Senza interrogarsi, senza cercare spiegazioni. L'eterna forza dei semplici, di sapersi affidare e al tempo stesso non arrendere al proprio destino. La sua natura era sana, semplice e giusta. La sua morale onesta, trasparente. La sua coerenza limpida, cristallina. Per tutta la sua vita, la natura integra e genuina di Mari sarebbe stata violata dalle ingiustizie e complicanze della vita. E quella mattina io, coinvolgendola in tutto quello, la stavo violando ancora.

Come. Dico, come, come posso aiutarti. Dove la metto, questa creatura. Dietro al bancone? A lavare i piatti e i bicchieri dell'ultimo cocktail che ho preparato? Come è possibile che io possa aiutarti, Mattia?”
Non so...Mari, non lo so. Ma non c'è soluzione, mi devi aiutare. Non posso prendere una persona, una tata, una babysitter... qualcosa. Non posso”
Perché. Perché non puoi, Mattia. Cosa intendi, perché non puoi”. Non c'era tono interrogativo nelle sue parole, solo il tono teso di rimprovero di chi ti mette di fronte all'illogicità dei tuoi gesti. Le sue domande non erano tali, erano semplici questioni in tono affermativo volte ad esplicitare le mie contraddizioni.
Perché non posso coinvolgere estranei in tutto questo...persone che non conoscano Elis, che non sappiano...non posso. Si potrebbero...non so, potrebbero insospettirsi...su di me...”
Farebbero bene a insospettirsi, cristo santo, povera creatura, è una bambina di 6 anni ed è in mano ad un sconosciuto!”
Mari, ti prego...lo so, hai ragione, ma è così...”
Cosa è così?!”
La situazione, questa è la situazione...Elis mi ha lasciato una bambina e...”
Bella situazione del cazzo, Mattia!”. Mari non si alterava mai. O meglio, mai a caso, mai a sproposito. E, soprattutto, la rigida educazione ortodossa che aveva ricevuto aveva fatto sì che rarissimamente, solo nelle circostanze più estreme, usasse parolacce. Si indignava spesso, si irrigidiva, ma se dalla sua bocca uscivano parole di rabbia poteva essere solo perché il suo sistema di valori era stato stuprato.
BELLA - SITUAZIONE – DEL - CAZZO” - ripeté, sillabando le parole. “Elisabetta, con la quale ti sei scritto per anni senza che la cosa avesse alcun senso, ricompare dal nulla dopo 8 anni, ti informa di avere una bambina e te la lascia in mano. Ti chiede di non fare domande, tu non ne fai e se ne va. Per sempre, solo Dio sa dove”.
Non ha detto per sempre, ha detto solo per molto tempo”
Vaffanculo, Mattia”. Tono secco, lapidario, come se avessi fatto una domanda del tipo sì o no e lei avesse risposto logicamente una delle due. Beh, aveva ragione.
Immagino tu abbia contatti in procura sufficienti per fare le peggiori trafile del mondo” - tacque un attimo per guardarmi severa negli occhi - “...e ottenere la patria potestà di una bambina di cui non conosci nemmeno il padre”. Conosceva il mio lavoro meglio di me.
...”
Quindi adesso la bambina ha una patria potestà ma non ha né un padre né una madre”
...”. Deglutii ed annuii.
Mari tornò a fissare di fronte a sé, lo sguardo lievemente corrucciato, gli occhi intelligenti impegnati nel tentativo di mettere a fuoco il punto lontano. Tutto il suo corpo e spirito proteso nello sforzo di dare una delle sue scrollata di spalle, ancora una volta.
Dove la metto, Mati? Come la tiro su? Dimmi dove e come, e lo faccio, ma suggeriscimi come, perché io, da sola, non vedo la soluzione”.
Vieni a vivere da me. Licenziati al bar. Posso permettermelo, posso mantenere te e la bambina. Vieni a vivere da me e stai dietro alla bimba, so che lo puoi fare”
Non sarei una buona madre, Mattia”.
No, Mari, lo saresti. Sei sempre stata brava, sei stata brava a fare tutto quello che hai sempre fatto, sei...Mari...”.
Mari si voltò verso il finestrino e poi, di nuovo, di fronte a sé. Due minuti di silenzio in cui combatté con i ricordi. Gli occhi lucidi. La cosa più brutta.
Piegò leggermente la testa verso il basso, la rialzò e guardò avanti, di fronte a sé, ancora una volta. Deglutì rumorosamente, sembrò dire qualcosa ma no, rimase in silenzio e, per un altro paio di minuti, continuò a fissare lontano oltre il finestrino. Poi si girò, e i suoi piccoli occhi neri mi guardarono, dritto negli occhi, con cattiveria.
Va bene – disse. “Io no sono come te, Mattia”.

Per la prima volta in più di dieci anni, Mari aveva parlato al singolare. Io non sono come voi, Mati, io sto al mio posto solo dietro al bancone. Tante volte lo aveva detto. Ora mi guardava negli occhi, per la prima volta, e il suo sguardo serio e severo si rivolgeva a me, solo a me, a segnare una distanza. Io non sono come te, Mattia. Un mondo che non le apparteneva, una vita ingiusta e cattiva ogni giorno violentava la sua natura sana e semplice, cercando di incattivirla. E in quel momento, sì, capii che sì. La vita ci era riuscita. La vita le aveva insegnato come essere cattiva.

sabato 23 novembre 2013

The Bluebird of Happiness

For George

Show me the way to the place where I belong, my bluebird.
Hold my hand and take me home.
And if it ever happens that we are apart,
don't worry, I won't be angry, I won't be upset:
I will know what I was born for.
I will keep you in the safest place I know
and I'll be waiting.
'You know that place between sleep and awake,
that place where you still remember dreaming?'
That's where I'll always love you, my bluebird.
That's where I'll be waiting.

domenica 20 ottobre 2013

Alla piccola April (2008-2012)

Fai buon viaggio, piccola April.
Possa la tua anima giocare felice
come facevi con me
e possa il tuo sorriso aiutarci
tutte le volte che ci sentiremo soli.

Ti pensero' ogni giorno e preghero',
anche se ancora non so bene chi.
E se qualche volta mi sara' piu' facile parlare con te che con Dio,
spero che capirai
e sarai felice di ascoltarmi.
"Perche' il respiro di Dio e' sempre il respiro di Dio,
anche se passa da un uomo all'altro,

in eterno".

giovedì 28 febbraio 2013

Recensione del film "Lore", di Cate Shortland, Australia/Germania, 2013

Trailer del film

http://www.youtube.com/watch?v=MQu8dMec-jU

Germania, maggio 1945. La guerra e’ finita. Lore ha 15 anni e vive con quattro fratelli, e’ la sorella maggiore. Aiuta in casa, aiuta i fratelli, aiuta la madre. La madre, nazista, e il padre, SS. Lore e’ tedesca. E’ tedesca, ariana e antisemita.

Il nostro Furher e’ morto, Lore. La madre di Lore piange, e’ ferita, madre andrai in prigione?, ricordati chi sei. Ricordati chi sei, Lore. Se non vado da loro gli Americani verranno a prendermi e prenderanno anche voi bambini, madre andrai in prigione?, non e’ una prigione Lore e’ un campo di lavoro, non e’ vero madre menti.

La madre di Lore si costituisce agli Alleati. Il padre fugge.
Novecento chilometri, novecento chilometri a piedi. Lore e i fratelli percorrono tutta la Germania, dalla Foresta Nera ad Amburgo, per raggiungere la nonna. Attraversano la Germania americana, inglese, francese, russa. La Germania occupata, la Germania degli Alleati. Sul loro tragitto, incontrano Thomas. Thomas puo’ aiutarli, puo’ nutrirli. Procura loro cibo, trova loro luoghi sicuri dove dormire la notte. Thomas e’ un uomo, un uomo adulto, puo’ fingere di essere il loro fratello maggiore. Thomas li protegge, li difende dagli aggressori, li difende dagli Alleati. Thomas puo’ farlo. Thomas e’ ebreo.

Il secondo lungometraggio dell’australiana Cate Shortland rovescia l’immaginario tradizionale dell’ Olocausto e, per la prima volta nella storia del cinema dedicato al genocidio ebraico, rappresenta il dramma dello sterminio nazista attraverso il dramma di quattro bambini nazisti.
Ne restituisce le tinte fosche, cupe. Se La Vita e’ Bella ne ritraeva l’innaturalita’, se metteva in risalto l’atrocita’ della Shoah attraverso il violento contrasto tra la sua innaturale disumanita’ e la naturalita’ assoluta dell’amore di un padre verso il figlio, Lore ne mette in scena l’oscurita’, la notte dell’umanita’ che esso ha rappresentato.

Non ci sono vittime, non ci sono carnefici. I ruoli consolerebbero e conferirebbero senso, ad un Male corrisponde un Bene. In Lore c’e’ solo il buio, l’orrore. Lo sguardo atterrito della madre nazista che prima di costituirsi agli Alleati si guarda allo specchio seminuda e’ lo sguardo vitreo dei corpi seminudi e scheletrici dei sovravvissuti ai campi. La sofferenza di un viaggio di novecento kilometri di cinque bambini ariani e’ l’atrocita’ dei viaggi nei vagoni merce verso i campi di concentramento. L’albume d’uovo diviso tra cinque figli di una coppia di SS e’ la fame dei bambini sopravvissuti ai campi, i loro corpi ridotti pelle ossa all’arrivo degli Alleati. L’orologio che Lore ruba ad un cadavere per pagare qualcuno che allatti il piu’ piccolo dei fratelli, sono gli anelli che gli ebrei ingioiano per possedere qualcosa al momento della deportazione.

Non c’e’ amore, non c’e’ tenerezza. Se c’e’ contatto fisico e’ solo sadomaso e perverso desiderio sessuale. Non c’e’ speranza, non c’e’ redenzione. Non ci sono risposte, solo contraddizioni. Lore e’ antisemita ma e’ ossessionata dalle immagini dei sopravvissuti ai campi. Thomas e’ una vittima dell’ Olocausto, e’ un ebreo deportato, un sopravvissuto ai campi di concentramento, ma al tempo stesso e’ un carnefice che prova a violentarla, mente sulla sua identita’, uccide un uomo. Lore e’ nazista, Thomas e’ ebreo ma i due si uniscono per necessita' e insieme compiono un crimine efferato. “Cosa abbiamo fatto?”, chiede Lore a Thomas dopo averlo commesso. E alla sua domanda non c’e’ risposta. Lore non da’ risposte. Al contrario complica e rovescia quelle che l’immaginario artistico ha dato sino ad ora.

Un’ originalissima e potente interpretazione dell’ Olocausto che va finalmente in una nuova direzione, non quella trite e scontata di cui la Memoria sembra essere sempre piu’ imbevuta. Cosa e’ l’ Olocausto, come ricordarlo. Forse e’ stato solo la Notte dell’Umanita’, risponde Lore. E per questo si ripete in tutti le tragedie, tutti gli orrori, tutti i drammi. Anche quelle di un gruppo di bambini antisemiti, nazisti. 

domenica 24 febbraio 2013

Il mio tempo è adesso

TESINA DI FINE MASTER 
A.A. 2010-2011

Il mio tempo è adesso
La notte tra il primo e il due luglio, verso le cinque e trenta del mattino, una citroen C3 viaggiava su via Bolognese all’altezza di Pian di San Bartolo, Firenze.
Dopo una curva, la macchina schianta violentemente contro un’auto parcheggiata e il passeggero seduto sul sedile posteriore batte il cranio con forza contro il montante di ferro tra i due finestrini sfondando poi con il viso il finestrino alla sua destra.
La dura madre e l’aracnoide si fratturano, introflettendosi recidono l’arteria meningea e ledono il lobo frontale non dominante. Per l’onda d’urto, il maxillo-facciale si scompone in 28 fratture.
Il passeggero entra in coma e si risveglia 15 giorni dopo, domandandosi se si trova in Italia o in Marocco.

Questo mi accadeva due giorni dopo il mio ritorno da Meknés, Marocco, dove avevo vissuto tre mesi, per l’ultimo modulo del master MiM, Migrazione Intermediterranea, Investimenti e Integrazione.
La sera del 29 giugno scendevo dal pullman Terravision che da Pisa mi aveva riportato a casa, a Firenze, e leggevo il mio ultimo messaggio sul numero marocchino: “ Rja’t j dar mizian! Kanetmena tkoni m’a l ‘aila dialek. Twahachnakom bezzaf”. Buon ritorno a casa! Sii felice con la tua famiglia. Ci mancherai molto.
Un messaggio di Boshra, la signora marocchina presso la cui famiglia, a Meknés, avevo vissuto tre mesi.
Scendevo dal pulmann e riabbracciavo mio padre, venutomi a prendere.
Sei felice”, mi dice mio padre, sorridendo.
Sì, sono felice. Il mio tempo è adesso”, rispondo.

Il mio tempo è adesso”. L’ho pensato spesso, durante l’ultimo modulo Master e l’ho ripetuto in continuazione tornata a casa, nei due giorni prima dell’incidente, a motivazione del mio entusiasmo e della felicità fiduciosa con cui ero tornata dall’ultimo viaggio. Mi aspettavano due mesi di Inghilterra, quattro di Libano, uno stage che ero certa mi avrebbe appassionato moltissimo e una vita futura con nuove consapevolezze, una visione diversa della vita e del mondo e una forza e una speranza nuova che un anno di viaggi e di master Mim mi avevano dato.
Due giorni. La notte del primo luglio l’incidente e, da quel momento, la sensazione di cesura, di vita che cambia. L’estate in ospedale, le dimissioni a settembre, l’impossibilità di partire per il Libano.
Nel momento di maggiore entusiasmo, di fiducia piena in se stessi e nei mesi a venire, l’interruzione brusca di un incidente, la morte che è possibile, la vita che a volte decide per noi e il Cielo che non si comprende e che a volte si distrae.
Ho percepito netta, da luglio ad oggi, la cesura violenta tra la vita di prima e la vita di adesso.
Mi sono ripetuta che col tempo tutto sarebbe tornato come prima e meglio di prima, che la vita di oggi si sarebbe riallacciata a quella di ieri, che poteva andarmi peggio e che dovevo essere solo felice, per essere qui.
Sì, la vita tornerà pian piano come prima, meglio di prima, e il tempo tornerà ad essere mio. Ma per sentire vicino il ricordo di uno degli anni più belli della mia vita e che più mi hanno cambiato e permesso di sbocciare per quella che sono, sento ora psicologicamente il bisogno di ripercorrere, tappa per tappa, quello che per me è stato il Master Mim, ciò che mi ha lasciato ed insegnato.
Barcellona
Qualcosa di non facilmente definibile fa di Barcellona una vera città mediterranea. Per un Master che intende porsi come un percorso volto ad esplorare le relazioni internazionali di natura politica, geoeconomica e sociale tra i paesi della riva Nord e riva Sud del Mediterraneo, fornendo gli strumenti per le più varie figure professionali attive nel campo, tre mesi di vita a Barcellona permettono di conoscere il volto che l’Europa assume nel contesto mediterraneo, esplicitando il carattere di “confine”, di “frontiera” che caratterizzano le città di questo universo.
Elegante e raffinata, culturalmente eclettica ed artisticamente superlativa in quartieri come El Borne, l’Eixample e il Barri Gotic, per citarne alcuni, placida, rilassata e rasserenante nel lungomare della Barceloneta, un lato più oscuro e sordido, controverso e affascinante emerge nelle vie interne del Raval, dove comunità etniche delle più diverse provenienze, Marocchini, Pakistani o Indiani, sperimentano le difficili prove dell’integrazione e della convivenza.
Una natura meticcia, cosmopolita e multietnica che emerge anche nel quartiere Poble Sec, per non dire in tutta la città vecchia, anche se in modo più composto ed ordinato.
Una vita notturna stimolante, allegra e un’offerta artistica e culturale che di giorno illumina la città aprendosi verso il mondo. Il Centro di Cultura Contemporanea della Catalogna o il Museo d’Arte Contemporanea di Barcellona, alcuni tra gli spazi culturali più attivi della città, sono state mete frequenti, sia di giorno che di sera, del gruppo di amici che quasi sin da subito si è andato formando all’interno del Master. Un respiro europeo, mediterraneo, cosmopolita che si respirava con allegria in occasione delle esposizioni, dei concerti, delle confererenze ed altre iniziative artistiche.
Un fascino, quello di Barcellona, per il suo essere “sospesa”, a metà strada, tra i suoi passi verso il moderno ed una storia maledetta (agli inizi del XIX secolo il Raval, cuore della città vecchia, allora solo una distesa di terre, era l’unica zona della città che permetteva la costruzione di grandi edifici vicino al centro; con le fabbriche aumentò anche la popolazione, soprattutto immigrati del Pakistan e delle Filippine e le condizioni di vita di queste persone portarono a Barcellona problemi di convivenza e gravi epidemie a causa della mancanza di igiene. Così il Raval si trasformò in un ghetto nel quale nessuno osava entrare, una zona maledetta conosciuta come il “quartiere cinese” perché vi regnava lo stesso squallore e affollamento della Chinatown di San Francisco).
Per i nostalgici di quelle atmosfere noir restano ancora alcuni segni di quell’antico squallore: bar di prostitute con neon accecanti, locali sporchi e bui. Sembra ancora di sentire l’odore di un passato fatto di spacciatori e trafficanti.
Al tempo stesso però, quartieri alla moda, frequentatissimi dai barcellonesi amanti dei locali multiculturali, caffé con musica, musei e circoli culturali, ma anche negozi di tendenza e ristoranti etnici.

Presso l’Universidad Autonoma de Barcelona, il più grande lascito a livello formativo delle lezioni e seminari tenutosi nei tre mesi del modulo, è stata per me la scoperta e lo studio più dettagliato ed approfondito del mondo delle ONG, le Organizzazioni Non Governative attive nell’ambito Mediterraneo e la creazione di un progetto di sviluppo che, nel caso del mio gruppo di lavoro, riguardava lo sviluppo integrale dei giovani nel Sud del Libano.
Mettersi in gioco con creatività, facendo lo sforzo di ideare attività con un fine preciso, cercando il coraggio di mostrare agli altri del gruppo le proprie idee relative ad ambiti e finalità di una tale caratura è stata per me una palestra importantissima e mi ha formato incredibilmente a livello psicologico.
Ideare con libertà relativamente a temi verso i quali si è fortemente sensibili, scoprendo di essere del tutto in grado di partorire progetti validi che prevedano attività creative e originali e che per farlo è necessario appoggiarsi ad un gruppo di persone, con le difficoltà e i vantaggi che ne derivano, forma a mio avviso molto più di qualsiasi studio manualistico.
Scoprire che la propria formazione precedente e la propria sensibilità ci offrono molti degli strumenti necessari per tradurre in qualcosa di fattivo e concreto le nostre speranze ed idee mi ha dato forza e ha fomentato in me l’entusiasmo per mettermi alla prova in future attività di volontariato, anche se attive in ambiti differenti e in contesti molto diversi. Qui a Firenze esiste un’associazione attiva nel campo dell’immigrazione ed integrazione ed ho deciso di parteciparvi: mi rendo conto di contribuire con creatività, proponendo progetti nuovi, perché l’esperienza di Barcellona mi ha dato la disinvoltura di credere nelle mie idee e nella possibilità di tradurle in qualcosa di concreto.
Più specificatamente, le competenze assunte nelle modalità di presentazione di un progetto di sviluppo ci hanno qualificato in questo settore, competenze spendibili nei più vari campi, non solo nella cooperazione allo sviluppo.


L’esperienza del lavoro di gruppo, inoltre, è stata di per sé di cruciale importanza.
Saper accettare che il valore e la qualità del lavoro non dipendono solo da noi, che le proprie idee e proposte possano non essere accettate e necessitino dell’approvazione collettiva, che la tempistica personale deve rispettare quella altrui e che è naturale che si sviluppino dinamiche in cui ciascuno assume un “ruolo” rispetto agli altri. Ruolo che si deve imparare a “gestire”, rispettandolo e al tempo stesso rendendolo duttile alle diverse circostanze, esigenze e situazioni. Capacità, queste, che in contesto accademico, almeno nel mio caso, non si sviluppano né si potenziano, pur essendo vitali nell’ambiente lavorativo a qualsiasi livello e in qualsiasi settore.

Aver sperimentato la formulazione di vari progetti in gruppi di lavoro costituiti da studenti provenienti da università italiane, spagnole e francesi, ci ha dato anche la possibilità di confrontarci con formazioni accademiche e scolastiche di diverso tipo. Gli spagnoli, più efficienti nelle abilità tecniche, come l’utilizzo di programmi informatici più sofisticati, e al tempo stesso meno abituati alla presentazione scritta dei diversi lavori (per uno dei progetti dovevamo preparare per iscritto la presentazione di un progetto di ricerca); non a caso, il sistema accademico spagnolo non prevede la stesura di una tesi finale al termine del ciclo triennale, ma solo per il ciclo magistrale.
I francesi, rigorosi e puntuali nella presentazione del proprio lavoro ma meno abituati alle decisioni collettive: più portati ad intendere il lavoro di gruppo in modo fortemente gerarchizzato, in cui ognuno contribuisce con la propria attività che va ad “addizionarsi” alle altre, più che a intersecarsi.
Difficile giudicarsi dall’esterno e pronunciarsi rispetto a quelle che fossero le nostre, da italiani, caratteristiche nel lavoro di gruppo. Posso dire che più volte ci è capitato di discutere con ragazzi stranieri sulla cosa, e ci veniva segnalata una spiccata tendenza all’analisi speculativa sulle varie tematiche che a volte però assumeva il volto della polemica e della discussione fine a se stessa.
Se penso a qualcosa di migliorabile, qualche aspetto che non mi ha del tutto entusiasmato, devo dire che il livello e la coerenza con il senso dell’intero modulo di alcune lezioni non sono stati, a mio avviso, all’altezza dei progetti di lavoro e della didattica degli altri moduli. A livello organizzativo inoltre, non sempre la segreteria didattica era a nostra disposizione.
Infine, la conoscenza della lingua spagnola al momento dell’iscrizione al master sembrava utile ma non necessaria. Credo invece che per affrontare il modulo di Barcellona nel modo più costruttivo e soddisfacente possibile sia necessario un livello di conoscenza della lingua, tutto sommato, adeguato.
Venezia
Venezia è un’oasi rosa, raccolta, serena, tutta “interiore”.
Fatata nel suo essere fuori dagli schemi, riflessiva, ha tempi lunghi: quelli delle camminate, del “pensiero” a piedi, della bellezza che sorprende ad ogni angolo, in ogni Calle.
L’acqua la circonda e ne decide i ritmi, i tempi: ti ferma quando è alta e ti costringe alla riflessione quando, per attraversare la città, non hai auto ma solo un vaporetto e, sulla terraferma, la camminata.
Non si fa scoprire facilmente, Venezia: ogni quartiere ha i suoi piccoli locali, le sue frequentazioni, le sue abitudini, ma è “introversa”, raccolta, e rifugge il caos, il rumore, i locali notturni festosi e confusionari.
E’ stato nel suo ambiente elegante e riflessivo che abbiamo vissuto il secondo modulo del Master, forse il più completo a livello formativo, che si è nutrito di una docenza eccezionale di altissimo livello didattico.
Il caso ci è stato amico ed è stato proprio durante il term di Venezia che la primavera araba è iniziata: ciò ha permesso alla docenza di illustrarci quadri storici ed interpretativi con i quali leggere gli avvenimenti del momento, ci ha aiutato a mettere in relazione le nostre conoscenze pregresse con ciò che stava accadendo e di percepire il protagonismo dei nostri studi in quell’occasione.
Il livello delle lezioni e dei seminari ai quali abbiamo assistito è stato, ripeto, forse il più alto di tutto il Master. Professori di prestigio internazionale, specialisti nelle loro discipline si sono presentati a noi proponendoci chiavi di lettura nuove di ciò che avevamo studiato, facendo ordine tra tutte le conoscenze acquisite nei nostri percorsi accademici precedenti e aiutandoci a capire in che modo avremmo potuto sfruttare le nostre competenze nel mondo del lavoro.

Dato il numero cospicuo di docenti stranieri ed essendo passato del tempo da quando, tra compagni del Master, ci eravamo conosciuti unendoci in rapporti di amicizia, è stato a Venezia che mi sono resa conto con quale elasticità e disinvoltura, passavamo da una lingua all’altra, dallo spagnolo al francese, dal francese all’italiano e così via, con naturalezza, percependola come una competenza ovvia, semplice, che non ci stupiva nemmeno più tanto.

A Venezia, soprattutto noi italiani per la ricerca dello stage, abbiamo contato su uno staff organizzativo efficiente e a livello umano accogliente e, per certi versi, materno.
Ognuno di noi è stato accolto e compreso nelle proprie attitudini, consigliato nella strada da intraprendere, seguito nelle proprie difficoltà e perplessità sempre nel rispetto delle nostre naturali inclinazioni.
Rispetto al mio stage, che purtroppo non si è potuto tenere, io mi sono sentita compresa, aiutata, e ho avuto la sensazione che ciò non sia stato fatto solo con me. Derive competitive sono state smorzate, per non dire annientate, ci è arrivato semmai un messaggio tra le righe: che ognuno di noi possiede un suo modo, unico ed irripetibile, di contribuire al mondo del lavoro, con le proprie capacità e la propria sensibilità.

Questo ultimo aspetto, la nostra sensibilità, ho avuto la sensazione che sia stato tenuto nel modulo di Venezia in grande considerazione: il seminario di letteratura araba che abbiamo fatto, in cui, divisi in gruppi, ci veniva chiesto di presentare, nel modo più libero possibile, le nostre letture di autori arabi, ci ha dato la possibilità di esprimerci creativamente, in piena libertà, portando la nostra sensibilità ed emotività in scena, in comunicazione con gli altri. E’ stato un seminario che ho amato moltissimo, che mi ha commosso ed avvicinato ad alcune letture in modo nuovo, un modo che “parla” della letteratura, a mio avviso, molto più di qualsiasi critico o manuale. Ci ha avvicinato anche tra di noi, compagni del Master, che piano piano eravamo sempre più amici e vicini l’uno all’altro: ci ha dato l’opportunità di scoprirci nella dimensione più profonda, quella dell’emotività, della sensibilità verso la poesia, della ricezione della Bellezza.


Trovandomi in Italia ed avendo avuto quindi la possibilità di tornare spesso a casa, a Firenze, il modulo di Venezia è stato anche quello in cui ho più percepito e compreso il grande cambiamento che stava avvenendo dentro di me a seguito dell’esperienza che stavo facendo. L’essermi confrontata con persone nuove, diverse, e più vicine per interessi e sensibilità ai miei, l’essere vissuta in un contesto nel quale il viaggio era la dimensione costante e la scoperta e la curiosità l’unica vera religione, tutta umana, mi faceva col tempo sempre più scoprire me stessa, vedere che stavo venendo fuori per quella che sono, che mi sento di essere. E confrontandomi con l’ambiente e il mondo della mia vita passata mi sentivo sempre più nuova e, serenamente, lontana.
Meknés
Emilio è partito da Meknés, Marocco, qualche giorno prima di me.
Sono stata a trovarlo, nel suo piccolo appartamento affittato in centro, per salutarlo e pranzare un’ultima volta assieme.
Emilio aveva impacchettato tutto nei suoi zaini e si sarebbe diretto a Fez, prima di tornare a casa, per alcune interviste necessarie alla sua ricerca sul campo, una dei lavori a noi richiesti nell’ultimo modulo Master. Avremmo potuto scegliere tra Montpellier, Francia, e Meknès, Marocco. Io, avendo studiato arabo al corso di laurea triennale, non avevo mai avuto alcun dubbio.
Ci abbracciamo, sulla porta, prima di salutarci.
Come sono strane le partenze”, mi dice Emilio.
Ora infilerò la chiave nella toppa, chiuderò la porta e lascerò la chiave sotto lo zerbino all’ingresso, come mi ha detto di fare il proprietario. E non ci tornerò mai più. Questa, che per tre mesi è stata la mia casa, la vedo oggi per l’ultima volta. La lascio adesso e la lascio per sempre. L’ho sentita mia, gli ho voluto bene e ora la abbandono, e non ci tornerò mai più. Quante case ho avuto mie e ho abbandonato? Tante, tantissime”.
Quante ne ho avute io?” penso per un attimo, scendendo le scale.
Tante, ma non abbastanza per come voglio vivere, per come credo di aver capito di essere dopo questa esperienza.
C’è una cosa che ho imparato in questo anno Mim, penso tornando verso casa, dalla famiglia marocchina dove ho vissuto per tre mesi. A sviluppare, in tempi rapidissimi, una forte affezione ai luoghi, con un altissimo livello di adattamento, una quotidianità immediata anche se in mondi lontani, nuovi, abituandomi ad affezionarmici pur sapendo che presto li abbandonerò. A sviluppare ritmi, consuetudini, familiarità in poco tempo, sentendomi sempre a casa, anche in un altro continente. Perché la mia vera casa è dentro di me, nella mia visione del mondo, nei miei ideali, nelle mie speranze e nel mio universo affettivo.

Bab Mansour è una piazza africana. L’ho pensato il primo giorno, appena arrivata e l’ho pensato l’ultimo, partendo per l’aeroporto.
Assolata, vastissima, popolata da mercanti e venditori di tappeti, giocolieri e addomesticatori di serpenti, le donne arabe dirette verso il suq che parte dall’estremità interna della piazza, hanno gli abiti sgargianti e colorati delle donne africane per come le ho sempre immaginate.
Si spintonano nel suq vociando in modo scomposto, contrattano il prezzo con allegria, ti guardano sospettose mentre attraversi le strade con lo sguardo curioso, stupito, straniero.


Meknés è una città piccola, lontana dal turismo di massa di una Marrakech o una Rabat, ma è comunque una delle città imperiali, maestosa ed elegante in alcuni luoghi di interesse, e al tempo stesso povera, disordinata, pittoresca, nei quartieri meno turistici, un vero Marocco nordafricano che non ha ancora conosciuto la volgarizzazione occidentale. Non vieni assalito perché europeo e quindi possibile acquirente di merci, e dopo un po’ quasi non ti stupisci più delle scene incredibili a cui puoi assistere, dai venditori che procedono con un carretto ad asino, ai mercanti del suq che pesano il cibo in vecchie bilance di ferro in cui il peso viene misurato a confronto con mattoncini di diverse dimensioni.
L’ho pensato uno degli ultimi giorni quando ho visto una signora anziana, raccolta su se stessa dentro un carretto pieno di fiori, che si faceva così trasportare da un giovane ragazzo che con una corda tirava il carretto dietro di sé.
Mi è sembrata una scena dolcissima, e ho sorriso alla vecchina, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Mi sono resa conto in quel momento che mi sembrava normale, che certe cose non mi stupivano più, quando fino ai 21 anni la mia immaginazione intendeva gli spostamenti solo con le auto o i mezzi pubblici.

Il modulo di Meknés è stato per me il più riflessivo, forse il più difficile nei primi momenti, e quello, forse, che mi ha lasciato di più, dal quale sono tornata più cambiata, più cresciuta e più consapevole.
Ho vissuto per tre mesi, come scrivevo, in una famiglia marocchina e questa scelta mi ha dato la possibilità, oltre che di esercitare notevolmente la lingua “darija”, il dialetto marocchino, che a fine modulo potevo dire di utilizzare con una certa sicurezza nelle più varie circostanze, di conoscere davvero e dall’interno la vita di una famiglia araba, nordafricana, con le sue contraddizioni, le sue difficoltà, le sue meraviglie.
Ho sperimentato cosa significhi apprendere una lingua straniera di tale difficoltà per noi italiani. I corsi di lingua, sia di dialetto che si arabo classico, sono stati per me illuminanti, ben fatti, di alto livello.
A momenti, soprattutto all’inizio, ho avuto attimi di sconforto, ho pensato che no, non l’avrei mai imparata, era troppo difficile, troppo diversa, mi sono sentita incapace, non all’altezza. E mi sembrava di essere tornata bambina, perché apprendere una lingua da zero partendo dalla comunicazione più elementare ti fa sentire così, sempre più giovane, sempre più piccola. E col tempo ho scoperto che non c’è niente di impossibile, niente che sia impossibile apprendere. Ma soprattutto che non c’è niente che avvicini di più nella distanza culturale che il mezzo espressivo, il tentativo di apprendere la lingua, niente che ti renda agli occhi dell’altro più dolce e tenero, più compreso, più vicino.

Boshra, la signora della casa presso cui ho vissuto, quando Nicoletta, una delle ragazze del Master, è venuta a trovarci, un’amica che aveva deciso di fare il terzo modulo a Montpellier, avendo già fatto l’esperienza marocchina l’anno precedente, e che aveva vissuto, anche lei, presso la famiglia di Boshra, con tre parole ha espresso quello che tra noi era accaduto da quando ero arrivata.
Enrica è bravissima. Da quando è arrivata, è come se fosse qui da sempre”.
Ed è vero, l’ho provato anche io. Per questo ho passato la maggior tempo in casa, con la famiglia, dedicandolo allo studio della lingua e vivendo a pieno i ritmi familiari, le visite dalla nonna la domenica, le passeggiate intorno all’isolato con i bambini, i sabato mattina al hammam e le spese nel suq con la donna di casa, Boshra.


Nelle case marocchine c’è sempre qualcuno. Gli invitati, i mu’aridiin, i passanti che ogni giorno offrono il loro tempo al padrone di casa, come omaggio e occasione per ringraziare Dio. Ualhamulillah. Rendiamo grazie a Dio. Il tempo non ha meno importanza in Nord Africa. E’ solo ancora proprietà di Dio, e non degli uomini.
Gli ospiti raccontano la loro vita e bevono thé, riposandosi nei divani del salotto, dove l’uomo di casa, il padre di famiglia, in diversi momenti della giornata stende un piccolo tappeto e prega Dio.
Tre divani, nel salotto, stretti e lunghi, attaccati alle pareti. Le pareti racchiudono lo spazio, lo spazio è protetto dalle pareti e le pareti sono protette dai divani. Lunghi divani, lunghi e stretti, lunghi e kitsch. Arabeschi d’oro, cuscini rosa e teli blu. Divani kitsch pieni di cuscini, cuscini durissimi e ricamati, sopra i quali si riposano i componenti della famiglia e gli invitati.
Un giorno è venuta una femme de ménage, a casa, una signora delle pulizie. Boshra me lo ha detto quando è uscita, tenendo gli occhi bassi, a terra, come sospirando al pensiero della povertà e delle difficoltà economiche. Avevo cercato di capire qualcosa, mentre parlavano in fretta, bevendo thé e mangiando dolci, e avevo colto continui ringraziamenti a Dio, brevi riflessioni sulla sua saggezza, sulle sue imperscrutabili decisioni, che non sta a noi giudicare.
Parlano della malattia del marito di Boshra, una cardiopatia per il quale è stato operato, poco prima che io arrivassi e per la quale, mi ha detto un giorno Boshra piangendo, hanno speso moltissimi soldi, e non ce la fanno, non ce la possono fare, curarlo costa troppo.
La femme de ménage la consola e rimette a Dio il destino degli eventi.
L’eterna forza dei semplici, di sapersi affidare e al tempo stesso non arrendersi al proprio destino.

Boshra ha lo sguardo serio, severo. E’ amorevole ma esigente nei confronti dei suoi due figli, Youssef e Aitam, nove e quattro anni. Alta, giovane, e grassa, come tutte le donne in Marocco.
C’è un momento in cui il marito bussa alla porta e la donna in Marocco non esiste più. Esiste, sì, ma per il marito, per i figli, per gli invitati, esiste per stare in cucina, preparare il thé, andare a lavoro. Le donne in Marocco lavorano, qui, non si vive con un solo stipendio. E’ così, la nostra vita. Scorre, fino alla fine. E noi non siamo come voi. Non conosciamo niente di diverso. Per questo non proviamo invidia, e non cambiamo”.
Me lo disse qualche giorno dopo il mio arrivo, Boshra, parlando di una donna europea che un giorno aveva pranzato con loro e che le era sembrata molto più giovane perché magra, ben vestita e truccata.
Mi fa piacere che sei qui, Enrica. I miei figli mangiano in fretta, mio marito si riposa. Tu invece resti sempre qui, con me, e parli.”

Boshra nei primi tempi mi studiava sempre seria, con i suoi enormi occhi a mandorla, neri. Era senza velo, in casa, e portava spesso una coda lenta, da ragazzina, come quella che portavo io.
Qualehe capello bianco, pochi, ha 36 anni. Il corpo andato di una donna matura, prossima all’obesità, e gli occhi e la pelle di una ragazza giovane che sotto il pigiama, con cui stava in casa il più delle volte, copre un seno florido, ancora bello.
Un pigiama ruvido, bianco e sporco, che copre male un seno enorme e una pancia obesa.
Sotto la jellaba, il vestito tradizionale, la donna marocchina porta sempre il pigiama, anche quando è fuori. Si cambia poco. Sotto l’abito lungo e ricamato, sotto i colori accesi e gli arabeschi kitsch, trascina la sua vita di casa, anche dentro al suq. Tra la folla, il cibo avariato, il banco del pesce e la gente che spintona, sotto il velo colorato e la jellaba sgargiante, c’è la sua vita di sempre e la sua sottoveste ruvida e gialla, che non cambia mai.

In una casa araba i tempi sono condivisi, si fa tutto insieme. Si mangia insieme, rigorosamente, ci si riposa insieme, si esce insieme e si va a letto insieme. L’unità della famiglia è un valore, rigidissimo, a cui tutti si attengono, perfino Aitam, di quattro anni. Solo Boshra, però, alle sei è in piedi, si alza, da sola, prepara la colazione e aspetta che la giornata dei propri figli e del proprio marito cominci. Torna dal lavoro, è maestra di arabo classico in una scuola elementare, prepara la merenda delle sei e sistema la casa. Prepara la cena, e va a letto. Non ha mai un momento per sé.
Solo al hammam, quando la vedo distrarsi e vedo il suo sguardo perdersi in un vuoto indecifrabile, lontano, fatto di sogni e fantasie inconfessabili, mi sembra di vederla in una dimensione privata, intima, tutta personale. Mi sembra di vederla donna, che si prende cura di sé, occuparsi del suo corpo e della sua bellezza con cura, strofinandosi con forza, dovizia, per ore.
Mi piace venire qui.”, mi dice un giorno. “Quando sono stanca, vendo al hammam, e mi rilasso, al caldo, da sola. E’ molto rilassante per me”.
E’ qualcosa di più del relax per lei, penso. E’ un momento in cui c’è solo lei, che pensa a se stessa, e nessun altro di cui prendersi cura.

Il primo giorno che sono stata al hammam avevo quasi paura. Un hammam di quartiere, piccolo, poco pulito, frequentato da gente locale. Un calore irrespirabile e una folla di donne nude, chiassose, grassissime, corpi nudi che si strofinano, si lavano, si fanno massaggiare dalle donne del hammam in servizio.
Di fronte ai due rubinetti, uno con l’acqua calda e uno con l’acqua fredda, non sapevo cosa fare. Ho aperto l’acqua calda e mi sono bruciata, scottandomi la mano. Una signora al mio fianco ha sorriso, intenerita, e ha miscelato l’acqua nella bacinella che avevo a disposizione. L’ho ringraziata.
Ualidii ualidik”, mi ha risposto sorridendo. I miei genitori sono i tuoi genitori.
Una delle espressioni marocchine di ringraziamento che nella sua semplicità esprime tutto il senso sacro e popolare della visione del mondo musulmana.
Siamo fratelli e sorelle e siamo vicini, perché Dio è padre mio e padre tuo.

Nelle case marocchine si mangia rigorosamente dallo stesso piatto. Un enorme piatto al centro, ricco di succulente pietanze. Con una mollica di pane si raccoglie il cibo, qualcuno anche con le mani. Il cous-cous, uno dei piatti tipici, a volte viene ridotto a pallina, con la mano, e messo in bocca, come un tozzo di pane.
In un pranzo dalla nonna di famiglia, la madre di Boshra, è stata l’unica volta che ho avuto quasi difficoltà a mangiare. Al centro dell’enorme piatto c’era un pollo, oleosissimo, che la nonna, a un certo punto, ha cominciato a fare a pezzi, a mani nudie distribuendolo tra i convitati che ringraziavano gioiosi.
Un momento di difficoltà ma ho mangiato, ringraziando. Perché in Marocco non si possono fare complimenti, non si può rifiutare.
E’ questo il codice inviolabile dell’ospitalità sacra marocchina, uno dei più grandi lasciti degli uomini del deserto. L’ospitalità è una dottrina, un’arte, che colora la vita di chi viene ospitato così come dell’ospite. Nel momento in cui si varca una soglia accogliendone i doni offerti dalla casa, si è fratelli, uguali, servi e inferiori solo a Dio. Per questo i complimenti occidentali sono un concetto estraneo: in Occidente l’ospitalità è bene, ma contiene in sé il senso del sacrificio, dell’impegno, presuppone uno sforzo rispetto al quale l’educazione dell’ospite impone qualche attimo di riserva, in cui si tende a rifiutare. Per il mondo musulmano no: sarebbe inconcepibile.

Partita per il Marocco mi ero portata un sacco a pelo, caso mai ne avessi mai avuto bisogno, in una piccola sacca di tela blu.
Enri, lascialo qui.”
Cosa?”
Il sacco a pelo. Enri, mi ascolti? Forza, muoviti, lascialo qui, così quando vuoi dormi da me.”
Quando voglio?”
Sì, quando vuoi. Quando scappi dal cibo di Boshra, ché stai diventando quadrata.” E ride.
Nadia, la mia amica Nadia. Me lo avrebbe detto uno dei primi giorni, una sera, appena arrivata, indicando l’angolo quadrato della sua stanza dove, sopra un rettangolo di coperte polverose, una sull’altra, avrei dormito ogni tanto, spesso, tutte le volte che, dopo lezione, il tempo sarebbe passato, lentamente, fino a farsi tardi.
Le dieci, le undici, tardi. Troppo tardi per una famiglia marocchina e una madre che alle sei si alza, prepara la colazione e aspetta che arrivino le otto.
Ride, Nadia. Abbassa la testa, alza le sopracciglia. Mostra i suoi denti grandi, bianchissimi, le sue labbra carnose e mulatte, da donna nera.
Non vedo nulla, Nadiuzza, non c’è luce.”
C’è solo una lampadina, nella sua stanza, un’ampolla gialla sopra un tavolino basso pieno di cose piccole e inutili.
Che belle che sono, ma dove le trovi?”
Ma che ne so, ovunque.”
E quante cose ti sei portata?”
Tantissime. Si è portata tantissime cose, Nadia, tante piccole cose belle con cui decorare le giornate come se fossimo a casa. Anche in Marocco.
Ana min Talian, ualakin ualidii min Ghana. Sono italiana, ma i miei genitori sono ghanesi. Ma come mi guarda questo, Enri, rassegniamoci, i marocchini non capiscono il nostro arabo.”
Ride, Nadia, abbassa la testa e solleva le sopracciglia. Ti guarda negli occhi ma dal basso, la testa tra le spalle e lo sguardo verso l’alto. E’ bassina, bassissima. Sorride, contiene il suo sarcasmo, l’ironia saggia di chi prende in giro ma senza ostilità.
Ana min Talian, ualakin ualidii min Ghana. “Sei sicura di partire, Sampong? Una donna, e nera. Si è più cattivi con chi ci è vicino. Per questo è forte, il razzismo, in Nord Africa, molto più di quello che pensiamo noi, che crediamo che sia nero tutto quello che noi non siamo.”
Grazie, lo so, l’ho sempre saputo. Ed è proprio per questo che voglio partire.”
Nadia, la mia amica Nadia. Non ha avuto paura del razzismo quando è arrivata.
Hai notato qualcosa di diverso Nadiuzza?”
No, come a Vicenza, niente di più.”
Ti sbagli, Nadia, non è vero. E non ho il coraggio di dirtelo. Non ho il coraggio di dirti che nella casa in cui ho abitato non saresti mai potuta entrare. Perché Boshra ti temeva. Perché sei donna, e nera, e porti sfortuna.

Il giorno in cui sono arrivata ho mostrato a Boshra il sacco a pelo, per non disturbarla ed evitare che usasse lenzuola nuove per me, non ancora consapevole del fatto che questo mio gesto sarebbe stato frainteso in quanto inusuale, percepito come rifiuto di qualcosa che mi veniva offerto, da sorella a sorella.
L’ho offesa, quella sera. La sera in cui quella stanza diventava mia e i due figli di Boshra passavano al lato del letto dei genitori, tra il muro e il matrimoniale, sopra un materasso basso e ruvido di coperte vecchie, una sull’altra, piegate in due.
L’ho offesa, perché mostrando il mio sacco a pelo avevo rifiutato le sue lenzuola pulite e senza volerlo avevo segnato, ai suoi occhi, una distanza precisa tra me e lei.
E’ la più triste delle incomprensioni, il tornaconto più amaro dei disequilibri sottesi alle migrazioni globali.
La sfida rabbiosa e l’impegno cieco di coloro che restano nel difendere l’immagine di chi se ne è andato.
Di chi ha deciso di invertire un equilibrio ingiusto e di disegnare un destino diverso per i propri cari. Di chi ha abbandonato la sponda arida e povera del Mediterraneo e ha tentato una strada nuova e un futuro a Nord.
Chi resta osserva da lontano il loro fallimento. Vede il bacino del Mediterraneo farsi sempre più grande, i destini delle due sponde sempre più lontani. Vede i propri cari fallire, aggrapparsi ad un’Europa che li incattivisce e li respinge. Li vede soccombere, e man mano farsi sempre più stretto il nodo dei loro destini nel laccio della morsa globale.
Smettono di piangerli, smettono di aspettarli. Alcuni si fanno complici di un’Europa cattiva, iniziando a invidiarne costumi. Altri, invece, ne temono il disprezzo, difendono rabbiosamente la propria terra, fino all’esasperazione. E così come aprono allo straniero la loro casa come a un proprio fratello, secondo i rituali sacri e antichi dell’accoglienza dei popoli del deserto, così serrano le proprie porte all’improvviso, per sempre, non appena li ferisce la lama dell’arroganza e del disdegno anche quando non esiste, ed è solo un riflesso delle proprie paure.

Boshra mi ha insegnato il senso profondo e sacro dell’ospitalità. Mi ha insegnato che il sacrificio e la disciplina possono anche impreziosire l’esistenza, non solo appesantirla. Che la felicità può passare anche attraverso una famiglia rigida, il cui codice culturale congela le inclinazioni in ruoli fissi, e statici. Nei tre mesi in cui ho vissuto con lei, la sua apertura nei miei confronti è stata tale che adesso la sento qui, non sono lontana. E’ con me. Non l’ho lasciata in un quartiere di periferia di un piccola città del Marocco, nella terra arida e povera del deserto dove le vite si consumano in silenzio, senza fare rumore.
Lei è qui, la sento ridere e pregare. Portare in tavola il suo piatto preferito e aspettare i complimenti, come una bambina. Sgridare i figli perché non vogliono mangiare e poi piangere, da sola, per averli picchiati.
In tre mesi i nostri ricordi si sono intrecciati, per sempre, e la mia vita ha preso un corso diverso, che non conoscevo, e di cui anche lei, con le sue preghiere e le sue ingenuità, mi ha indicato la strada.
Ma la sera in cui ci siamo incontrate, la sera in cui quella stanza è diventata mia, è bastato un sacco a pelo blu per allontanarci.
E’ bastato rifiutare delle lenzuola pulite perché si insinuasse in lei il sospetto di un disprezzo e di uno sdegno, che non c’era.
Qui, e fuori. Io, e gli altri.
L’esperienza del Master mi ha, come ho già scritto, dato la possibilità di sbocciare per quella che sono, che sento di essere.
Non solo ha arricchito le mie conoscenze e competenze dandomi la possibilità di affacciarmi sul mondo del lavoro con più consapevolezza, creando ordine tra le varie conoscenze acquisite durante il percorso triennale.

In primo luogo, ha rivoluzionato il mio senso della mobilità. Ho capito che la mia casa è dentro di me, è tutta interiore, e che la mia vita sarà fuori, spostandomi spesso, scoprendo quello che c’è al di là perché la mia curiosità e la mia sensibilità necessitano di stimoli che provengono da tutto quello che il mondo può offrire.
Che siamo tutti uomini, vicini l’uno all’altro, e che se la cultura ci allontana, l’umanità ci unisce.

Ho sviluppato un altissimo livello di adattamento a contesti di vita molto differenti e una capacità, in tempi brevi, come scrivevo, di sviluppare il senso dell’abitudine, della quotidianità, di affezionarmi ai luoghi e di ricordarli sempre, come una parte di me.

A livello affettivo, viaggiare implica la distanza e l’allontanamento.
Ma chi viaggia, ho capito, deve imparare a pensarsi da lontano.
Chi viaggia si rincontra, un giorno, nel giro confuso delle proprie vite, e ha un imperativo, che lo accompagna sempre, ovunque vada: non dimenticare, mai.
I sentimenti, per chi viaggia, implicano il ricordo, la dimensione interiore.

L’essere rientrata in un contesto “classe” a 24 anni, dopo gli anni di università in cui si emerge nella propria individualità ed autonomia, mi ha dato la possibilità di rimettermi alla prova nei rapporti con gli altri, soprattutto nei lavori di gruppo, in cui ho scoperto cosa significhi lavorare “in équipe”, assumendo specifici ruoli che si deve sempre avere la capacità di trattare in modo duttile, sapendo metterli in discussione e all’altezza delle varie circostanze e situazioni.

Soprattutto, essermi trovata a lavorare e a confronto con persone con una sensibilità, interessi e percorsi accademici simili ai miei, mi ha permesso di mettermi in discussione, rendendomi conto come le mie esperienze potessero essere limitate, semplici, al confronto di quelle di altri, che avevano viaggiato ed imparato molto più di me.
Mi sono resa conto di avere un livello di arabo piuttosto basso a confronto di altri coetanei e di necessitare di numerose esperienze in paesi in cui possa imparare meglio la lingua.
Al tempo stesso però, ciò mi ha dato l’opportunità di riflettere su cosa significhi crescere, maturare, accumulare esperienze.
Contano certo i percorsi formativi, le esperienze all’estero, le conoscenze apprese. Ma crescere è prima di ogni cosa un percorso interiore, personale, che si può fare ovunque, anche accanto alla propria famiglia, ai propri cari.

Prima di cominciare il Master, ero ossessionata dall’idea dell’ “età”. Terminare gli studi il prima possibile, cominciare a lavorare il prima possibile, imparare le lingue il prima possibile.
Un’esperienza come questa, che mi ha messo di fronte alla più diversa varietà umana, che mi ha fatto lavorare con ragazzi coetanei, ma anche più grandi, o più piccoli, mi ha reso consapevole di quanto fossero sciocche queste riflessioni tormentate sul tema dell’età.
Quanto, a prescindere dai titoli di studio, avare una certa età o qualche anno di più facesse la differenza, in termini di creatività rispetto all’immaginare i propri percorsi formativi e lavorativi, a riflettere su ciò che studiavamo o che ci accadeva.
La vita non è un treno che scorre sopra un binario precostituito, e non vince chi arriva prima. Il percorso lo decidiamo noi, con i nostri tempi, le nostre esperienze, e più tortuoso, confuso e complesso è, più può essere affascinante ed appagante.

All’aeroporto di Pisa, Caterina, tornata con me dal Marocco, si sarebbe diretta verso casa, in Sicilia. Io avrei preso il treno e sarei tornata a Firenze.
Caterina. Abbiamo passato un anno insieme. Abbiamo riso, scherzato, pianto, abbiamo litigato, perfino, qualche volta. E ora ci saremmo abbandonate per sempre.
Ci abbracciamo, gli occhi lucidi.
Caterina mi sorride, i suoi grandi occhi scuri mi guardano con intelligenza, e commozione.
Buon ritorno a casa Enri” mi dice.
Mi raccomando. Non dimenticare.”
Te lo prometto, Cate.” rispondo, trattenendo il respiro.
Te lo prometto. Non dimenticherò”.