CAPITOLO QUARTO
“Dio
mio, Mattia.
Ti rendi conto o no?”
Mari si passò le mani tra i capelli
raccolti all’indietro, guardando intorno a sé nervosamente. Era
scesa fuori di casa in fretta, mettendosi addosso i jeans stretti da
lavare e il piumino nero lucido che non si chiudeva, con la cerniera
rotta. Era entrata in macchina dove l'avevo aspettata per pochi
istanti - si era presentata al nostro incontro puntualissima, come
sempre – e, intrappolata al sedile, immobile e concentratissima, mi
aveva ascoltato per dieci minuti, in silenzio. Senza dire una parola,
aveva seguito i miei balbettii, le mie narrazioni confuse, per tutto
il tempo che mi era servito ad affastellare disordinatamente le
mie confessioni. Guardandomi dritto negli occhi, aveva accolto il mio
smarrimento senza commentare, frugando in silenzio nel mio sguardo
perso senza palesare un giudizio. E, passato qualche minuto dalla
fine delle mie parole, si era espressa, lapidaria.
“Dio
mio, Mattia.
Ti rendi conto o no?”
Aveva i capelli raccolti un po’
sporchi ed era struccata, come non era quasi mai. Si era sempre
truccata poco, Mari, ma quasi sempre metteva un mascara nero che le
rendeva gli occhi piccoli ancora più scuri, ancora più all’erta,
e che le dava quell’aria semplice ma curata, da ragazza sana. E i
capelli, quasi sempre rigorosamente legati in una folta coda alta,
non erano mai lasciati alla
trascuratezza, erano
sempre impeccabili, puliti e ordinati. Alta e magra, era sempre stata
in forma, Mari, la pelle del viso chiara e compatta e il corpo
tonico, slanciato, da sportiva, quel culo piccolo sotto i jeans
attillati che mi faceva impazzire. Quel giorno era trascurata e
stanca, ma era sempre lei, bella e pulita.
“Dio
mio,
Mattia. Ti rendi conto o no?”
Mi passai due dita sotto
il colletto della camicia. Stavo
sudando. Una corda
ispida e pungente mi
stringeva le gambe e le ginocchia in una morsa d’ansia. Dal basso,
la corda saliva e intorno al petto si contorceva stretta a serrarmi
il battito. Ad
ogni respiro la corda tirava, la morsa stringeva e
il dolore al petto rimbombava sonoro fino alle tempie,
in attesa della stretta successiva.
“Mi
rendo conto, Mari, mi rendo conto, ma...ma io cosa posso fare....cosa
devo fare”.
Deglutii a fatica. Avevo la gola
secca. Sentivo la schiuma bianca ai lati della bocca diventare sempre
più vischiosa, la pelle tirata sempre più calda. Sentivo il viso
contrarsi, irruvidirsi, come se stessi dimagrendo di colpo, in pochi
minuti.
“L’ha
vista Lorenzo, ieri mattina...dice che è sana, che dovrà vederla
anche un pediatra, ma che sicuramente è una bambina normale. Ha
detto che l’esame delle ossa conferma l’età dei documenti...e
che si informerà per il neuropsichiatra...ma...ma che a lui è
sembrata serena, solo molto silenziosa”.
Mi fermai un attimo. Respirai a
fondo, come per entrare in apnea. “Le maestre dicono che è
bravissima...sa già leggere e scrivere, parla inglese correntemente.
Capisce il francese, senza problemi...ma tende a non parlarlo. Dicono
che è sempre molto silenziosa, attenta e che è molto ubbidiente”.
Mari alzò la testa di scatto per
voltarsi due secondi verso di me e guardarmi fisso. Si passò le mani
magre e lunghe sopra il viso pallido e pulito e riprese a fissare di
fronte a sé, gli occhi piccoli e intelligenti concentrati
su un punto lontano che non riuscivano a mettere a fuoco.
Maria, la mia amica Mari. Il giorno
in cui ci eravamo conosciuti, Elis era entrata in classe timidamente,
pochi passi dietro
una sagoma atletica e spigliata, la sagoma di Mari. Sicura, Mari
l’aveva accompagnata dentro l’aula, la falcata lunga, il sorriso
deciso, i capelli raccolti in una coda di cavallo altissima. I
capelli semplici e ordinati di chi è abituato a prendersi cura di sé
con praticità, senza troppi lussi.
Mari. Le sopracciglia sottili, i
denti grandi e bianchi, il suo sorriso estroverso ed immediato, da
ragazza semplice. Era bastato il suo ingresso un po’ irruento,
quella mattina, il suo accento di paese e il suo abbigliamento
attillato di seconda mano, da mercato, per farmi chiedere cosa ci
facesse tra noi. Solo
molto tempo dopo scoprii che rientrava in una categoria sociale
protetta che accedeva a quegli studi per altre vie rispetto ai
criteri rigidi con i quali noi eravamo stati selezionati. Anche il
diploma finale era un altro e lo sarebbero stati anche i corsi, se
lei non li avesse seguiti tutti perché, mi avrebbe detto un giorno,
la borsa di studio che lo Stato le erogava per il mantenimento agli
studi veniva calcolata in base alle ore di lezione frequentate.
La madre di Mari era affetta da una
grave malattia neuro-degenerativa, la rara e incurabile corea
di Huntington. Da quando Mari era nata, fino a più o meno la sua
maggiore età, la madre sarebbe potuta sembrare niente più che una
donna goffa, impacciata, poco intelligente e con un pessimo
carattere. Nessuno si sarebbe mai potuto immaginare, per quanto la
natura progressiva del disturbo fosse sempre stata evidente, cosa un
giorno la madre di Mari sarebbe diventata. Intorno alla maggiore età
della figlia, la donna aveva perso in modo assoluto il controllo dei
suoi movimenti. Il suo corpo avrebbe cominciato a contorcersi in modo
anormale, spasmodico, in torsioni e movimenti ripetitivi che le
impedivano il normale svolgimento di qualsiasi attività quotidiana.
I repentini sbalzi di umore che aveva sempre avuto sarebbero esplosi
in accessi violenti di rabbia psicotica, incontrollabili e
immotivati, illogici e improvvisi. E le capacità cognitive, la
memoria e la capacità di concentrazione, se mai erano state
brillanti, sarebbero deteriorate a velocità sempre più rapida, fino
a farla tornare, quando Mari era ormai donna, una bambina.
Mari, a diciott’anni, era già lei,
con la sua intelligenza pratica e concreta, la sua onestà
cristallina, la sua saggezza semplice e pragmatica. Si era diplomata
all’istituto professionale e subito dopo aveva cominciato a
lavorare come barista in un locale notturno di periferia. Non avrebbe
mai studiato all'università se non fosse stato che, facendolo,
avrebbe goduto di una borsa di studio tanto alta da farle pensare che
studiare e lavorare part-time economicamente le fruttava di più che
lavorare a tempo pieno. La natura di Mari non era fatta per studiare.
Mari era su un altro livello. Dei libri, Mari non aveva bisogno. Io
non ero così, non ero alla sua altezza, ma Mari non la vedeva allo
stesso modo. Non avrebbe mai potuto capire quanto io la invidiassi.
Non fa per me Mati, non fa per me studiare. Io non sono come voi, io
sto al mio posto solo dietro al bancone. Una delle tante notti in cui
era venuta a trovarmi, una delle tanti notti in cui ci eravamo fatti
compagnia sfidando la solitudine come solo due amici di sesso opposto
sono in grado di fare, dopo aver fatto l’amore io l’avevo
riempita di baci sul viso e lei mi aveva confessato, come non faceva
mai, quella che lei considerava la sua peggiore debolezza. E tante
volte lo avrebbe fatto, in seguito, ripetendo sempre le stesse
parole. Io non sono come voi, Mati, io non sono fatta per studiare.
Io sto al mio posto solo dietro al bancone.
“Mari,
ho bisogno del tuo aiuto. Mi devi dare una mano. Me lo devi. Me
lo...me lo devi”.
Maria non mi doveva proprio niente.
Non era tenuta ad ascoltarmi, non mi doveva alcun aiuto. Non
sarebbe stata tenuta a scendere le scale quella mattina, non le era
dovuto entrare nella macchina
che avevo parcheggiato sotto casa sua per incontrarla. Non era tenuta
ad aiutarmi, trascurata, stanca, i capelli sporchi raccolti
all'indietro e il viso bello, pallido e teso di chi ha lavorato al
bar fino alle 5 e si è dovuto svegliare poche ore dopo. Lo sapevo,
lo sapevo benissimo, Maria non mi doveva niente. Avrei potuto
ammettere i miei limiti, la mia inferiorità, e dire ho bisogno di
te, non ce la posso fare da solo, ti prego aiutami perché
da solo non sono in grado, ma io non ero come lei, non ero
in grado, non ero lei, quindi inghiottii a fatica per recuperare il
respiro e rimpossessarmi del mio battito e insistetti. “Me lo devi.
Devi darmi una mano”.
Insistetti perché sapevo che con
Mari potevo farlo, lo avevo sempre fatto. Ero vigliacco, non ero come
lei e sapevo come Mari avrebbe preso le mie parole e come avrebbe
reagito. Per Mari, la mia era una richiesta di aiuto, nient'altro.
Una semplice richiesta d'aiuto, una mano, devi darmi una mano.
Chiunque
altro sarebbe sceso dalla macchina e se ne sarebbe andato, offeso dal
mio 'me lo devi', 'devi
darmi una mano'. Io sarei
sceso dalla macchina e me ne sarei andato, indignato. Ma
per Mari chiedere aiuto era chiedere aiuto, niente di più. Con lei
non c'era bisogno di complicare le proprie richieste ammettendo la
propria debolezza e il bisogno di rivolgersi a lei.
Non c'era bisogno perché
Mari non riempiva di significato i gesti e le parole altrui, non
costruiva la realtà intorno alle idee. Quindi 'devi aiutarmi a
portare su la spesa', 'vado in vacanza devi aiutarmi col cane' e 'una
pazza mi ha lasciato in mano una bambina di cui so solo il nome ed è
sparita, devi aiutarmi e fare da madre alla piccola perché io
non sono in grado di farle da padre' erano la stessa cosa,
semplici richieste d'aiuto. Le parole, per Mari, erano parole, e le
azioni, azioni. Non attribuiva un senso altro alle parole e
un'interpretazione ai gesti. I concetti, i principi, le idee
erano per lei solo infrastrutture che appesantivano la realtà e la
mistificavano, complicando inutilmente la distinzione tra bene e
male.
Per Mari esisteva solo il giudizio.
Il bene o il male. Con le azioni o le parole potevi fare,
alternativamente, bene o male. E interpretare, per Mari, non era che
il vigliacco strumento della mistificazione.
Quando la madre di Mari aveva
cominciato a peggiorare, la zia per parte materna con cui Mari e suo
fratello, di ben 13 anni più giovane, erano cresciuti, se n'era
andata. Mari era ebrea per parte di madre. La zia, ebrea
ultra-ortodossa, aveva educato i due fratelli secondo le dottrine
rigide dell'ortodossia più severa. Mari parlava yiddish
ed ebraico moderno. Erano state questa competenze linguistiche poco
comuni a permetterle l'ammissione al Master. Fino ai vent'anni, aveva
pregato tutti i giorni tre volte al giorno, al mattino, al pomeriggio
e alla sera. Tutti i sabati non aveva mosso un dito, nel rispetto più
assoluto del riposo dello Shabatt.
Si era attenuta con la massima precisione alle regole alimentari del
kosher
e anni dopo, quando avremmo mangiato insieme, l'avrei osservata tante
volte guardare con sospetto il cibo treif
nella forchetta,
indugiare qualche secondo e poi buttare giù, con celata riluttanza,
combattendo con se stessa e l'abitudine di anni. La sua coda
alta ed ordinata, i suoi capelli scuri e folti sempre
rigorosamente raccolti nascondevano l'abitudine fin da piccola alla
cura ligia della sua persona nella piena modestia e pudicizia.
Una mattina dei suoi vent'anni, Mari
aveva trovato la zia in camera da letto, all'alba, mentre riempiva
confusamente una valigia piccola, troppo piccola per una partenza
definitiva. L'aveva vista riempire la valigetta a scatti,
rabbiosamente, infilando i vestiti sgualciti uno sull’altro senza
un ordine, senza guardarli, scegliendoli a caso e stipandoli nella
valigia con rabbia, con odio, come se li stesse punendo per il loro
essere necessari mentre lei voleva partire, partire subito,
abbandonare tutto, e non tornare più. Mari era rimasta sul ciglio
della porta per qualche minuto, in piedi, immobile, osservando il
disagio psicotico espandersi, nella psiche della zia, come petrolio.
L’aveva guardata a lungo, senza dolore, senza paura, solo
osservando il suo sguardo fisso e i suoi movimenti
scattosi mentre
la follia si impossessava di
lei una volta
per tutte, dilagava a macchia d’olio nel suo corpicino contratto,
superava gli argini della diga fragile nei quali per anni era stata
rinchiusa e repressa, confinata nel fanatismo cieco e nel
puritanesimo ossessivo, che non è di nessuna religione e di tutte
quando non sono più fede ma solo follia. Dove vai, aveva detto Mari,
parto, aveva risposto la zia, è giunto il momento, ho sentito la
chiamata, il
prossimo anno a Gerusalemme.
La zia sarebbe
partita per il Golan con un gruppo di coloni, e Mari non l'avrebbe
vista mai più. Per anni Mari si sarebbe occupata da sola della madre
e del fratello, tanto più giovane di lei. Per anni, prima della
'cosa più brutta', come la chiamava Mari. Per anni Mari avrebbe
studiato,
lavorato e
imboccato lavato addormentato curato portato in bagno amato la madre,
facendo per lei tutto quello che si può fare e pensare per una
creatura viva, da sola. La mattina della partenza della zia avrebbe
risposto al fratellino più piccolo, tanto più piccolo, di soli 7
anni, che la zia, sì, era morta. E' volata in cielo,
gli avrebbe detto, ma non devi piangerla perché lo ha
voluto, perché sì, Mari la voleva morta, e solo nella fantasia
del fratellino sua zia sarebbe potuta morire.
Avevo conosciuto Mari prima della
cosa più brutta. L'avrei continuata a conoscere, a parlarci, a farci
l'amore, a volerle bene, anche dopo. E così come prima, dopo,
Mari sarebbe stata sempre la stessa. Avrebbe osservato le
ingiustizie, le perversioni, le storture della vita e le avrebbe
affrontate con una decisa scrollata di spalle, cercando
coraggiosamente una soluzione pragmatica che le consentisse di
sopravvivere. Senza interrogarsi, senza cercare spiegazioni. L'eterna
forza dei semplici, di sapersi affidare e al tempo stesso non
arrendere al proprio destino. La sua natura era sana, semplice e
giusta. La sua morale onesta, trasparente. La sua coerenza limpida,
cristallina. Per tutta la sua vita, la natura integra e genuina di
Mari sarebbe stata violata dalle ingiustizie e complicanze della
vita. E quella mattina io, coinvolgendola in tutto quello, la stavo
violando ancora.
“Come.
Dico, come, come posso aiutarti. Dove la metto, questa creatura.
Dietro al bancone? A lavare i piatti e i bicchieri dell'ultimo
cocktail che ho preparato? Come è possibile che io possa aiutarti,
Mattia?”
“Non
so...Mari, non lo so. Ma non c'è soluzione, mi devi aiutare. Non
posso prendere una persona, una tata, una babysitter... qualcosa. Non
posso”
“Perché.
Perché non puoi, Mattia. Cosa intendi, perché non puoi”. Non
c'era tono interrogativo nelle sue parole, solo il tono teso di
rimprovero di chi ti mette di fronte all'illogicità dei tuoi gesti.
Le sue domande non erano tali, erano semplici questioni in tono
affermativo volte ad esplicitare le mie contraddizioni.
“Perché
non posso coinvolgere estranei in tutto questo...persone che non
conoscano Elis, che non sappiano...non posso. Si potrebbero...non so,
potrebbero insospettirsi...su di me...”
“Farebbero
bene a insospettirsi, cristo santo, povera creatura, è una bambina
di 6 anni ed è in mano ad un sconosciuto!”
“Mari,
ti prego...lo so, hai ragione, ma è così...”
“Cosa
è così?!”
“La
situazione, questa è la situazione...Elis mi ha lasciato una bambina
e...”
“Bella
situazione del cazzo, Mattia!”. Mari non si alterava mai. O meglio,
mai a caso, mai a sproposito. E, soprattutto, la rigida educazione
ortodossa che aveva ricevuto aveva fatto sì che rarissimamente,
solo nelle circostanze più estreme, usasse parolacce. Si indignava
spesso, si irrigidiva, ma se dalla sua bocca uscivano parole di
rabbia poteva essere solo perché il suo sistema di valori era
stato stuprato.
“BELLA
- SITUAZIONE – DEL - CAZZO” - ripeté, sillabando le parole.
“Elisabetta, con la quale ti sei scritto per anni senza che la cosa
avesse alcun senso, ricompare dal nulla dopo 8 anni, ti informa di
avere una bambina e te la lascia in mano. Ti chiede di non fare
domande, tu non ne fai e se ne va. Per sempre, solo Dio sa dove”.
“Non
ha detto per sempre, ha detto solo per molto tempo”
“Vaffanculo,
Mattia”. Tono secco, lapidario, come se avessi fatto una domanda
del tipo sì o no e lei avesse risposto logicamente una delle due.
Beh, aveva ragione.
“Immagino
tu abbia contatti in procura sufficienti per fare le peggiori trafile
del mondo” - tacque un attimo per guardarmi severa negli occhi -
“...e ottenere la patria potestà di una bambina di cui non conosci
nemmeno il padre”. Conosceva il mio lavoro meglio di me.
“...”
“Quindi
adesso la bambina ha una patria potestà ma non ha né un padre né
una madre”
“...”.
Deglutii ed annuii.
Mari tornò a fissare di fronte a sé,
lo sguardo lievemente corrucciato, gli occhi intelligenti impegnati
nel tentativo di mettere a fuoco il punto lontano. Tutto il suo corpo
e spirito proteso nello sforzo di dare una delle sue scrollata di
spalle, ancora una volta.
“Dove
la metto, Mati? Come la tiro su? Dimmi dove e come, e lo faccio, ma
suggeriscimi come, perché io, da sola, non vedo la soluzione”.
“Vieni
a vivere da me. Licenziati al bar. Posso permettermelo, posso
mantenere te e la bambina. Vieni a vivere da me e stai dietro alla
bimba, so che lo puoi fare”
“Non
sarei una buona madre, Mattia”.
“No,
Mari, lo saresti. Sei sempre stata brava, sei stata brava a fare
tutto quello che hai sempre fatto, sei...Mari...”.
Mari si voltò verso il finestrino e
poi, di nuovo, di fronte a sé. Due minuti di silenzio in cui
combatté con i ricordi. Gli occhi lucidi. La cosa più brutta.
Piegò
leggermente la testa verso il basso, la rialzò e guardò avanti, di
fronte a sé, ancora una volta. Deglutì rumorosamente, sembrò dire
qualcosa ma no, rimase
in silenzio e, per un altro paio di minuti, continuò a fissare
lontano oltre il finestrino. Poi si girò, e i suoi piccoli occhi
neri mi guardarono, dritto negli occhi, con cattiveria.
“Va
bene – disse. “Io no sono come te, Mattia”.
Per la prima volta in più di dieci
anni, Mari aveva parlato al singolare. Io non sono come voi, Mati, io
sto al mio posto solo dietro al bancone. Tante volte lo aveva detto.
Ora mi guardava negli occhi, per la prima volta, e il suo sguardo
serio e severo si rivolgeva a me, solo a me, a segnare una distanza.
Io non sono come te, Mattia. Un mondo che non le apparteneva, una
vita ingiusta e cattiva ogni giorno violentava la sua natura sana e
semplice, cercando di incattivirla. E in quel momento, sì, capii che
sì. La vita ci era riuscita. La vita le aveva insegnato come essere
cattiva.