CAPITOLO PRIMO
Quando la vidi seduta al bar, pensai che non era
cambiata in niente. Dopo otto anni era sempre lei. Gli stessi occhi enormi e tristi, lo stesso
sorriso imbarazzato e timido. Mi avvicinavo al tavolino accostato alla finestra sulla strada e
riconoscevo il suo look disordinato, i suoi capelli raccolti in una coda, irregolare . La rivedevo
pettinarsi con attenzione di fronte allo specchio ma poi prendere troppo vento, perdersi, e non
arrivare mai in tempo. Appoggiata alla finestra del bar, guardava fuori distratta ma con gli occhi seri,
raccolta e intimidita, come una bambina, una bambina piccola. Anche quel giorno mi sembrò più
piccola, come mi era sempre sembrata lungo tutti quegli anni che erano passati da quando era
entrata a piccoli passi nella mia vita. Camminavo verso il tavolo e il suo cappotto rosso mi era
sempre più vicino. Faceva freddissimo, e lei indossava un cappottino rosso da primavera, come
me la ricordavo. Erano otto anni che non la vedevo ma lei era sempre come l’avevo immaginata
tutte le volte che era tornata. Che era ricomparsa nei miei pensieri, che si era fatta
viva, che mi aveva scritto una mail da un momento all’altro rientrando nella mia vita con
prepotenza e messaggi sconnessi. Come l’avevo pensata tutte le volte che l’avevo odiata, che l’avevo
maledetta per il suo cercarmi incomprensibile, per quel contatto che sempre manteneva per poi
rieclissarsi, ogni volta, senza saper confermare con decisione la sua presenza.
“Ciao”
Sorrise, come aveva sempre fatto. Un sorriso
luminoso, come sempre, e bella, come otto anni prima. La stessa. La stessa pelle, gli stessi
denti, la stessa postura. Come se qualcuno l’avesse spostata fuori dal tempo e se la fosse presa con
sé per non farla cambiare.
“Mi fa molto impressione vederti qui ”, dissi.
“Anche a me. Cosa prendi? Ti ordino del thé?”
“No, niente, grazie” - risposi secco - “tu
sempre caffè, vedo”
“Sì. Questa volta non ti ho scritto, hai
visto?”
Sorrise. Mi aveva sempre scritto, in tutti quegli
anni e prima. Avevo scoperto davvero chi avevo di fronte la prima volta che mi aveva inviato una
mail, chiamandola “lettera” nella prima frase.
Ho pensato tante volte di scriverti questa lettera
e ora che lo faccio per la prima volta sappi che lo farò per sempre,
ogni volta che avrò qualcosa da dirti. Ci sono persone che sanno
come essere quando parlano, e persone che sanno cosa sono solo quando
scrivono. Io sono come loro e tu mi prenderai così, sempre, anche se
non lo vorrai.
“Sì. Questa volta non ti ho scritto, hai
visto?”
Sorrisi io, questa volta, ma non affettuosamente.
La guardai un po’ di traverso corrugando
scettico le sopracciglia.
“No. Vedo. Come stai?”
“Bene, grazie. Adesso che sei qui non so più
come parlare”.
Era sempre lei. Aveva abbassato gli occhi,
imbarazzata, sorridendo con dolcezza e prendendosi le mani tra le mani sempre più raccolta nelle
spalle. Era sempre lei, con il suo sguardo dolcissimo e fragile, i suoi occhi azzurri e grigi sempre più
tristi. E adesso che sei qui non so più come parlare.
“Beh. Dovrai farlo. Ci ho messo tanto per
arrivare e mi ero quasi preoccupato”- sorrisi di traverso con piglio sarcastico -“non ci potevo
credere che mi chiedessi di vederci. Mi pare che l’ultima volta tu mi abbia salutato con una
mail”.
Credo che lo dissi per ferirla, ma che lo dissi
anche senza accorgermi che stavo parlando. Lei abbassò i suoi occhi enormi e lucidi, e deglutì.
Penso che stesse combattendo con la sua natura.
Ci sono persone che sanno come essere quando
parlano, e persone che sanno cosa sono solo quando scrivono. Me lo stava ripetendo in quel
momento, a denti stretti, quel momento in cui aveva deciso di appartenere alla prima categoria,
contro la sua natura, senza spiegarmi perché.
“Ti ho pensato sempre, in questi anni e prima.
Ti ho scritto, tutte le volte che ho potuto, ma spesso non potevo. La mia vita è stata difficile,
in tutto questo tempo”.
“Anche la mia, Elis. Anche la nostra, di tutti
noi che eravamo insieme, lo sai. Non capisco questo discorso da vittima, adesso. Comunque. Cosa hai da
dirmi?”
“Ti devo chiedere un favore, Mattia.”
Un favore. Un favore, Mattia.
Ancora oggi, quando ci ripenso, quelle parole
pronunciate a fatica, le prime dopo otto anni di silenzio e di lettere confuse e inspiegabili, mi
rimbombano contro le tempie, facendo male. Un favore. Ti devo chiedere un favore, Mattia. Dopo
otto anni nei quali, mio malgrado , il suo cappotto rosso e i suoi occhi enormi avevano fatto
parte della mia vita e dei miei pensieri, dopo otto anni nei quali l’avevo odiata, l’avevo
maledetta, avevo sperato che qualcosa di male la portasse via da questo mondo e da me, come sempre
assurda e inopportuna mi chiedeva un favore. Dopo una vita passata in quel suo modo
strano di concepire l’esistenza, con naturalezza bussava alla mia porta come se fosse una cosa
normale, come una cara amica che dopo tanto tempo torna e, in difficoltà, imbarazzata ti
chiede un favore.
“Non capisco cosa tu intenda. E’ otto anni che
non ci vediamo”.
“Sono otto anni che ci scriviamo”.
“Appunto. Sono otto anni che rispondo alle tue
mail senza che tu mi abbia mai concesso di vederti, come avrebbe fatto una persona normale.
Comunque. Dimmi. Mi hai chiesto un favore”.
“Lo sai della mia bambina, vero?”
Una bambina. Elisabetta aveva una bambina. Potevo
immaginarmelo, in effetti, che nella sua vita strampalata avesse dato alla luce una creatura e
magari non avesse mai informato il padre. Era capace di questo e ben altro, purtroppo. Ma no,
non lo sapevo.
“No. Non lo sapevo, Elis. Come faccio a saperlo.
Non me lo hai mai scritto. Non parlo di te con nessuno. Gli altri non li sento da tanto. Abbiamo
perso i contatti, da anni ormai. Quindi. Hai una bambina?”
“Sì. E ti devo chiedere una cosa.
Devi farmi una promessa, Mattia. Oggi, in questo
posto, in questo momento. Giuramelo.”
Ecco. Anche adesso la odio, ricordando quel
momento. La odio, come la odiai allora, senza poter reagire. La odiavo, ma lasciai che prendesse le
mie mani come aveva sempre fatto prima di sparire nel nulla, otto anni prima, stringendole
fortissimo tra le sue, aggrappandocisi, come per non cadere. Lasciai che prendesse le mie mani e che i
suoi occhi enormi e a mandorla diventassero sempre più lucidi, sempre più chiari, che la sua
voce dolcissima diventasse sempre più bassa e silenziosa.
“Devo partire, Mattia. Non ho molta scelta. Devo
partire e andarmene, oggi, adesso. Non posso spiegarti perché. Non per il momento, almeno.
Devo lasciare il paese e non posso portare la bambina con me. Devi tenerla tu, non so per
quanto. So che lo puoi fare. So del tuo lavoro, della casa, che hai la possibilità. Devi tenerla tu e
proteggerla. Prenderti cura di lei. Spiegarle quello che sai. Io non potrò starle accanto, non ora, e non
posso lasciarla sola.
Adesso io mi alzerò e andrò alla porta. Tra
pochi secondi uscirò, proseguirò a destra per pochi metri, e prenderò il taxi che in questo momento è
all’angolo, proprio dietro di noi. Salirò sulla vettura e me ne andrò, e per un po’ non ti
scriverò. Per un po’, per molto tempo, ma non per sempre. Tu aspetterai qualche minuto e poi
uscirai. Fuori, troverai una bambina in piedi accanto al lampione, quello all’angolo, qui di fronte,
all’ingresso del parco. E’ una bambina bionda, magra, con un caschetto e una frangetta corta. Ha
gli occhi chiari, un cappello grigio spesso e un cappotto rosso. Si chiama Sole. Maria Sole, ma
chiamala Sole, la chiamiamo tutti così, si volterà. Adesso uscirai e la troverai al lampione, in
piedi, che guarda intorno a sé. E la prenderai con te. Sa del tuo arrivo, quindi non avrà paura.
Prenditi cura di lei, Mattia”.
CAPITOLO SECONDO
Sole
entrò nel matrimoniale di Mari facendo leva sulle braccine
magrissime per non cadere ed arrivare alla sponda del lettone troppo
alta. Entrò in fretta tra le coperte, si fermò al centro esatto del
letto e, rimboccandosi le lenzuola come se fosse abituata a rifarsi
il letto tutti i giorni, si sistemò in silenzio pronta per andare a
dormire. Quando fu in ordine, rimase ferma qualche secondo guardando
verso il basso, fissando un punto preciso del lenzuolo e sospirando
lievemente. Sembrava che si stesse chiedendo se avesse fatto tutto
quello che doveva fare e sì, si stesse rispondendo che sì, le
lenzuola erano state sistemate e tutto era stato fatto come si
doveva. Rimase silenziosissima guardando in basso ancora per qualche
minuto mentre io, guardandola attentamente, mi sedevo sulla sponda
del letto, al suo fianco.
“Ciao”.
Fissandomi negli occhi mi salutò, con uno sguardo ubbidiente, come
se tra le mansioni della sera da portare a termine prima di andare a
dormire ci fosse anche il dovere di salutare con rispetto una persona
adulta che si sedeva accanto a lei.
“Ciao,
piccola. Sei stanca?”
Provai
a rimboccarle le coperte accarezzandola la frangia ma Sole aveva da
sola già fatto tutto.
Mari
era rimasta sconvolta. “Quella scoppiata l’ha educata come una
svizzera, te lo dico io. È incredibile, fa tutto da sola e non
fiata. Solo da quella folle poteva venire fuori una cosa del genere”.
Era
vero. Sole era incredibile. Silenziosissima, ubbidientissima, badava
a sé eseguendo in silenzio gli ordini che la sua coscienza le
imponeva e ad essi ubbidiva, momento per momento, abbassando a terra
gli occhioni azzurri.
“No
no. Ora vado a dormire”.
“Brava.
Domani è sabato. Non hai scuola, puoi riposare”.
“Sì.”
“Sei
contenta?”
“Sì.”
Non
mi sembrò sincera. Aveva guardato in basso come sempre faceva quando
ubbidiva ai comandamenti della sua coscienza e aveva risposto “sì”
solo perché “sì” era la risposta che mi avrebbe reso contento.
“Sei
sicura, Sole? A scuola, intendo. Sei contenta? Ti trovi bene con i
compagni? Sii sincera, dai, piccola”
“Sì”.
Brevissima esitazione.
“No,
in realtà no. Ma non possiamo farci niente”.
Aveva
aspettato un secondo prima di proseguire. Mi aveva fissato seria per
qualche istante e, senza parlare, si era risposta ad una domanda
silenziosa che si era fatta, parlando a se stessa, mentre le chiedevo
di essere sincera e rispondermi onestamente se si trovava bene. Cosa
fare quando non siamo felici. Come se si stesse ripetendo qualcosa
che in passato aveva imparato e che adesso doveva sapere e doveva
ripetersi. Non possiamo farci niente quando non siamo felici. Non
possiamo farci niente quando non ci troviamo bene a scuola.
“Perché,
piccola? Non ti piacciono i compagni? La maestra dice che sei
bravissima”.
In
quel momento, mentre mi guardava seria per ascoltare la mia domanda,
Sole aveva sei anni, e non uno di più. Mi guardava con i suoi
occhioni sempre più seri, stringendo il lenzuolo con le manine per
cacciare indietro le lacrime. Adesso era davvero una bambina, una
bambina piccolissima, una bambina di sei anni che non era felice.
“Sì,
sono buoni i compagni. Solo che non mi piacciono. E poi voglio
tornare a casa”.
Solo
che non mi piacciono. Sono buoni i miei compagni. E poi voglio
tornare a casa.
Lucy.
La mia piccola Lucy. Lucy, che studia alla scrivania, stringe con
forza il pugno. Le dita piccole e ossute in un pugno stretto sempre
più magro. Stringe il pugno, si passa una mano tra i capelli, si
copre la bocca. Stringe forte i denti, si sforza di non piangere.
Rividi
la mia sorellina, la mia piccola Lucy, i primi anni dell’università.
Va tutto bene, Mati, va tutto bene. Solo che, non ci posso fare
niente, non mi piace. Cosa non ti piace, Lucy. Non lo so, non mi
piace. Non mi piace, Mati, non mi piace andare avanti.
CAPITOLO TERZO
La ragazza alla sponda del letto ha i capelli castani e gli occhi
blu. Mi guarda per qualche secondo e poi si volta. Torna al suo
lavoro. Ha indosso una camicia. Una camicia da notte, lunga, lunga
fino a terra. E’ scalza, la ragazza. È tutta bianca, la sua
camicia, ma ha una macchia. Sopra il seno, il seno nudo, ha una
macchia, una macchia nera, indefinita.
No. E’ rossa, la macchia. Una macchia rossa sopra i capezzoli, i
capezzoli magri e ossuti, che intravedo sotto la camicia da notte. E’
una macchia rossa e nera ed è sempre più grande. Ha sempre più
macchie, la ragazza, sempre più grandi sotto la camicia.
Perde sangue. Seduta su una sedia accanto alla sponda del letto, la
ragazza perde sangue dal petto ossuto e mi fissa. Mi fissa, e torna
al suo lavoro. Vuoi una mano, cosa fai, vuoi un mano, non mi posso
muovere. La ragazza ha i capelli castani, non risponde, ha i capelli
castani e morbidi, riccioli, riccioli morbidi sopra le spalle magre,
sopra le ossa sotto la camicia bianca e sporca.
Ha in mano un cucchiaio, un cucchiaio piccolo e arrugginito. Cosa
fai, con il cucchiaio. Lavora, la ragazza lavora, imboccando una
vecchia distesa nel letto.
C’è una vecchia, nel letto, una vecchia raggrinzita, tra le
lenzuola bianche del letto di ospedale. Un ospedale, la vecchia è in
un letto di ospedale. E la ragazza con i riccioli castani la imbocca,
con un cucchiaio piccolo e arrugginito.
Mi guarda, qualche secondo. Ha il naso affilato e le labbra sottili.
Le labbra sottili sono le labbra delle persone cattive, ma che dici,
non sono vere queste cose, sì, sono vere, le labbra sottili sono le
labbra delle streghe, la ragazza imbocca la vecchia con un cucchiaio
arrugginito, la ragazza è una strega e la vecchia mugola.
Mugola, è raggrinzita. Mi voglio muovere, ma non posso, la ragazza
mi fissa. Provo a muovermi e lei in un secondo si volta di scatto, mi
gela, gli occhi blu e le labbra sottili, non ti muovere. E’
cattiva, la ragazza, imbocca la vecchia da un vasetto e la vecchia
mugola.
Apre la bocca la vecchia, a forza, è un buco nero la sua bocca, un
buco nero che perde sangue. Un buco nero senza denti, e la lingua,
dove è la lingua, la vecchia mugola e piange, la lingua è a pezzi.
Nel buco nero, la ragazza la imbocca, la imbocca a forza, con un
cucchiaio arrugginito da un vasetto piccolo. La imbocca e la lingua
si taglia.
Ferma. La vecchia mugola, fermati, fammi muovere, ma la ragazza mi
gela e continua.
Il vasetto.
Il vasetto sopra le sue ginocchia, le ginocchia ossute. Il vasetto è
piccolo e pieno. Pieno di cosa, di cosa è pieno, la vecchia piange e
la ragazza continua. Pieno di lame, di lame e di vetri, perché,
perché lo fai. La vecchia mugola mentre i vetri le entrano nella
lingua, nella gola, e lei non respira. Si muore quando ti tagliano,
quando ti tagliano la gola muori soffocato, ma che dici, muori perché
non hai più sangue, no, muori perché il sangue ti leva il respiro.
Il cucchiaio. Il cucchiaio piccolo e arrugginito. Il cucchiaio pieno
di lame. Fermati, fammi muovere.
La ragazza mi fissa. Ha gli occhi blu e le labbra sottili. Mi fissa,
prende un bicchiere accanto a sé, è velocissima. Prende un
bicchiere lo mette in un panno e lo spacca.
Un bicchiere che si spacca. I vetri che si frantumano. Il rumore dei
vetri e la vecchia che mugola.