Quando sono entrata nella mia stanza marocchina
per la prima volta, non ho pensato che fosse piccola o sporca. In realtà era
piccola, e sporca, e non aveva l’armadio e non c’era il letto. Ho pensato a
Firenze, alla mia ultima serata fuori, ai tavolini del bar e alle persone
nuove, a casa, che non avevo mai visto prima. Ho pensato che da quando ero
partita avevo sempre i capelli sporchi, che mangiavo sempre senza avere fame, e
che erano passati dieci giorni da quando ero arrivata a Meknès. Dieci giorni.
Sono tanti dieci giorni. Chissà cosa fanno gli altri adesso. Ho poggiato lo
zaino e ho realizzato che la sorella di Boshra, quella grassa e incappucciata,
mi aveva rovinato il poster nuovo con il planisfero sopra, tenendolo stretto
nella mano sinistra per darmi una mano e accompagnarmi a casa. Il
planisfero. I paesi del mondo. Tutte le cose del mondo e il loro nome scritto
sopra, in arabo. Ho pensato questo, per due secondi, e ho lasciato che lo zaino
mi cadesse dalle spalle scivolando sul braccio, di colpo, e cadesse a terra,
sul tappeto, in mezzo alla stanza. Non era il tappeto, al centro della
stanza, ma lo zaino e me, stanchissima, e il tappeto intorno. Su tutto il
suolo, tutto il pavimento, come una moquette spessa che protegge la terra dai
passi troppo pesanti e troppo di fretta. Tutte le stanze marocchine ce l’hanno.
Ora lo so, ma in quel momento non lo sapevo e non ho pensato niente di
tutto questo. Solo le scarpe mi hanno preoccupato, cazzo, non mi sono tolta le
scarpe prima di entrare, e sono stanca, stanchissima, ho i capelli sporchi, il
computer è nello zaino, lo zaino è caduto e il computer è senza custodia.
“Bgiti l-izor?”
Boshra mi ha parlato in marocchino, la prima volta
che è entrata nella mia stanza, la sera che quella stanza è diventata mia e che
io ero al centro del tappeto. Non c’era il letto, nella
mia stanza, ma tre divani, stretti e lunghi, attaccati alle pareti. Tre divani,
dodici cuscini, e un tappeto, in mezzo, grande quanto il pavimento. Sono tutte
così, le stanze in Marocco. Le pareti racchiudono lo spazio, lo
spazio è protetto dalle pareti e le pareti sono protette dai divani. Lunghi
divani, lunghi e stretti, lunghi e kitsch. Arabeschi d’oro, cuscini rosa e teli
blu. Divani kitsch pieni di cuscini, cuscini durissimi e ricamati, sopra i
quali si riposano gli ospiti quando raccontano la loro vita e bevono thé. Al mu’aridiin.
Gli invitati. I passanti che ogni giorno offrono il loro tempo al padrone di
casa, come omaggio e occasione per ringraziare Dio. Ulhamdullilah.
Rendiamo grazie a Dio. Il tempo non ha meno importanza, in Nord Africa. E’ solo
ancora proprietà di Dio, e non degli uomini.
“Tu veux les draps?”
Boshra ha riformulato la domanda, in francese. Mi
ha osservato dall’alto per tre secondi, non ha capito nulla, ha pensato. Mi ha
scrutato seria, immobile, ha studiato il mio sguardo stanco e stupito, lo
sguardo di chi non sta capendo. Non ce la faccio, non imparerò mai. Vuoi le
lenzuola, mi ha detto, sì, vuoi le lenzuola. Boshra è severa. Alta, giovane, e
grassa, come tutte le mogli in Marocco. “C’è un momento in cui il marito bussa
alla porta e la donna in Marocco non esiste più. Esiste, sì, ma per il
marito, per i figli, per gli invitati, esiste per stare in cucina,
preparare il thé, andare a lavoro. Le donne marocchine lavorano, qui, non si
vive con un solo stipendio. E’ così, la nostra vita. Scorre, fino alla fine. E
noi non siamo come voi. Non conosciamo niente di diverso. Per questo non
proviamo invidia, e non cambiamo.”
Me lo avrebbe detto in seguito, Boshra, qualche
settimana dopo, a tavola, dopo pranzo. Mi fa piacere che sei qui, Enrica. I
miei figli mangiano in fretta, mio marito si riposa. Tu invece resti sempre
qui, con me, e parli.
“Tu veux les draps?”
Boshra mi ha studiato seria, con i suoi enormi
occhi a mandorla, neri. E’ senza velo, in casa, e quella sera portava una coda
lenta, da ragazzina, come la mia. Qualche capello bianco, pochi, ha 36 anni. Il
corpo andato di una donna matura, prossima all’obesità, e gli occhi e la pelle
di una ragazza giovane che sotto il pigiama copre un seno florido, ancora
bello. Un pigiama ruvido, bianco e sporco, che copre male un seno enorme e una
pancia obesa. Sotto la jellaba, il vestito tradizionale, la donna
marocchina porta sempre il pigiama, anche quando è fuori. Si cambia poco.
Sotto l’abito lungo e ricamato, sotto i colori accesi e gli arabeschi kitsh,
trascina la sua vita di casa, anche dentro al suq. Tra la folla, il cibo
avariato, il banco del pesce e la gente che spintona, sotto il velo colorato e
la jellaba sgargiante, c’è la sua vita di sempre e la sua sottoveste
ruvida, e gialla, che non cambia mai.
“Aindi had, mashi moushkil”. Ho questo, non
c’è problema. Ho mostrato a Boshra il sacco a pelo, compatto, nella sua piccola
sacca di tela blu. Enri, lascialo qui. Cosa? Il sacco a pelo. Enri, mi
ascolti? Forza, muoviti, lascialo qui così quando vuoi dormi da me. Quando
voglio? Sì, quando vuoi. Quando scappi dal cibo di Boshra, ché stai diventando
quadrata. E ride. Nadia, la mia amica Nadia. Me lo avrebbe detto qualche
tempo dopo, una sera, indicando l’angolo quadrato della sua stanza dove, sopra
un rettangolo di coperte polverose, una sull’altra, avrei dormito ogni tanto,
spesso, tutte le volte che, dopo lezione, il tempo sarebbe passato, lentamente,
fino a farsi tardi. Le dieci, le undici, tardi. Troppo tardi per una
famiglia marocchina e una madre che alle sei si alza, prepara la colazione
e aspetta che arrivino le otto e che la giornata dei propri figli cominci.
Ride, Nadia. Abbassa la testa, alza le
sopracciglia. Mostra i suoi denti grandi, bianchissimi, le sue labbra carnose e
mulatte, da donna nera. Non vedo nulla, Nadiuzza, non c’è luce. C’è solo
una lampadina, nella sua stanza, un’ampolla gialla sopra un tavolino basso
pieno di cose piccole e inutili. Che belle che sono, ma dove le trovi? Ma che
ne so, ovunque. E quante cose ti sei portata? Tantissime. Si è portata
tantissime cose, Nadia, tante piccole cose belle con cui decorare le
giornate come se fossimo a casa. Anche in Marocco.
Ana min Talian, ualakin ualidii min Ghana. Sono italiana, ma i miei genitori sono
ghanesi. Ma come mi guarda questo, Enri, rassegniamoci, i marocchini non
capiscono il nostro arabo. Ride, Nadia, abbassa la testa e solleva le
sopracciglia. Ti guarda negli occhi ma dal basso, la testa tra le spalle e lo
sguardo verso l’alto. E’ bassina, bassissima. Sorride, contiene il suo
sarcasmo, l’ironia saggia di chi prende in giro ma senza ostilità.
Ana min Talian, ualakin ualidii min Ghana. Sei sicura di partire, Sampong? Una
donna, e nera. Si è più cattivi con chi ci è vicino. Per questo è forte, il
razzismo, in Nord Africa, molto più di quello che pensiamo noi, che crediamo
che sia nero tutto quello che noi non siamo. Grazie, lo so, l’ho sempre saputo.
Ed è proprio per questo che voglio partire. Nadia, la mia amica Nadia. Non
ha avuto paura del razzismo quando è arrivata. Hai notato qualcosa di diverso
Nadiuzza? No, come a Vicenza, niente di più. Ti sbagli, Nadia, non è vero.
E non ho il coraggio di dirtelo. Non ho il coraggio di dirti che nella casa in
cui abito non potrai mai entrare. Perché Boshra ti teme. Perché sei donna, e
nera, e porti sfortuna.
“Uakha”. Va bene.
Boshra mi risponde lenta, scandendo le sillabe. Le
trascina tra la lingua e il palato, con fatica e disprezzo. Mi sono alzata e,
ai piedi del divano, accanto alla porta, siamo rimaste una di fronte all’altra,
per qualche minuto. Io, con i capelli sporchi e lo sguardo stanco, e lei, due
ciuffi sulla fronte e una coda leggera, che mi guarda fissa con gli occhi
severi e gonfi della sera tardi. E’ più alta di me, ho pensato, no, è alta
uguale. E’ solo più grassa, e autoritaria, per questo sembra alta, e
importante.
“Uakha, Enrica. Lila sa’ida”. Va bene,
Enrica. Buona notte.
Lo ha ripetuto due volte. Alla seconda, ha
sistemato un ciuffo nero dietro la fronte, dentro l’elastico, e ha lasciato le
lenzuola pulite ai piedi del divano. Mi ha guardato affaticata, ancora una
volta, e ha fatto un passo, verso la porta. Si è voltata. E dandomi le
spalle l’ha chiusa, facendo rumore, dietro di sé.
L’avevo offesa, quella sera. La sera in cui quella
stanza diventava mia e i due figli di Boshra passavano al lato del letto dei
genitori, tra il muro e il matrimoniale, sopra un materasso basso e ruvido di
coperte vecchie, una sull’altra, piegate in due. L’avevo offesa, perché
mostrando il mio sacco a pelo avevo rifiutato le sue lenzuola pulite e senza
volerlo avevo segnato, ai suoi occhi, una distanza precisa tra me e lei. E’ la
più triste delle incomprensioni, il tornaconto più amaro dei disequilibri sottesi
alle migrazioni globali. La sfida rabbiosa e l’impegno cieco di coloro che
restano nel difendere l’immagine di chi se ne è andato. Di chi ha deciso di
invertire un equilibrio ingiusto e di disegnare un destino diverso per i propri
cari. Di chi ha abbandonato la sponda arida e povera del Mediterraneo e ha
tentato una strada nuova e un futuro a Nord.
Chi resta osserva da lontano il loro fallimento.
Vede il bacino del Mediterraneo farsi sempre più grande, i destini delle due
sponde sempre più lontani. Vede i propri cari fallire, aggrapparsi ad un’Europa
che li incattivisce e li respinge. Li vede soccombere, e man mano farsi sempre
più stretto il nodo dei loro destini nel laccio della morsa globale. Smettono
di piangerli, smettono di aspettarli. Alcuni si fanno complici di un’Europa
cattiva, iniziando a invidiarne costumi. Altri, invece, ne temono il disprezzo,
difendono rabbiosamente la propria terra, fino all’esasperazione. E così
come aprono allo straniero la loro casa come a un proprio fratello, secondo i
rituali sacri e antichi dell’accoglienza dei popoli del deserto, così serrano
le proprie porte all’improvviso, per sempre, non appena li ferisce la lama
dell’arroganza e del disdegno anche quando non esiste, ed è solo un riflesso
delle proprie paure.
Boshra mi ha insegnato il senso profondo e sacro
dell’ospitalità. Mi ha insegnato che il sacrificio e la disciplina possono
anche impreziosire l’esistenza, non solo appesantirla. Che la felicità può
passare anche attraverso una famiglia rigida, il cui codice culturale congela
le inclinazioni in ruoli fissi, e statici. Nei tre mesi in cui ho vissuto con
lei, la sua apertura nei miei confronti è stata tale che adesso la sento qui,
non sono lontana. E’ con me. Non l’ho lasciata in un quartiere di periferia di una
piccola città del Marocco, nella terra arida e povera del deserto dove le vite
si consumano in silenzio, senza fare rumore. Lei è qui, la sento ridere e
pregare. Portare in tavola il suo piatto preferito e aspettare i complimenti,
come una bambina. Sgridare i figli perché non vogliono mangiare e poi piangere,
da sola, per averli picchiati. In tre mesi i nostri ricordi si sono
intrecciati, per sempre, e la mia vita ha preso un corso diverso, che non
conoscevo, e di cui anche lei, con le sue preghiere e le sue ingenuità, mi ha
indicato la strada. Ma la sera in cui ci siamo incontrate, la sera in cui
quella stanza è diventata mia e io ero al centro della stanza, in mezzo, e il
tappeto intorno, è bastato un sacco a pelo blu per allontanarci. E’ bastato
rifiutare delle lenzuola pulite perché si insinuasse in lei il sospetto di un
disprezzo e di uno sdegno, che non c’era.
Sono rimasta qualche minuto i piedi, di fronte al
divano. Ho pensato allo zaino, in mezzo al tappeto, e al computer, che è nello
zaino, è caduto ed è senza custodia. E all’arabo, al marocchino, che e’ troppo
difficile, non posso impararlo, non ce la farò mai. Ho pensato tutto questo e
che ero stanca, stanchissima e volevo dormire.
Mi sono tolta le scarpe e ho guardato le lenzuola,
una sull’altra, di vari colori, ai piedi del divano. Le ho guardate e ho
visto una “B”, ricamata, sul terzo, un lenzuolo rosa.
Prenderò questo, ho pensato. Fa troppo caldo per
il sacco a pelo.